DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA – COMUNITA’ POLITICA (1)

By 20 Giugno 2025Pillole di saggezza

In occasione del Giubileo dei Governanti in questa settimana e nelle prossime fermeremo la nostra attenzione sulla Comunità Politica chiarendo oggi il concetto di AUTORITÀ POLITICA.

Fondamento dell’autorità politica

L’autorità, in politica, si fonda sulla natura sociale dell’uomo e ha come finalità essenziale e insostituibile l’edificazione della vita civile strutturata, ordinata e giusta.
Le procedure possono essere eterogenee in base alle condizioni storiche e culturali, poiché non è la forma che garantisce la validità di una metodologia ma i valori di riferimento. Infatti, come rammenta il Compendio Sociale della Chiesa, l’esercizio dell’autorità politica «sia nella comunità come tale, sia negli organismi che rappresentano lo stato, deve sempre essere praticato entro i limiti dell’ordine morale, per procurare il bene comune – concepito però dinamicamente – secondo un ordinamento giuridico legittimamente definito o da definire. Allora i cittadini sono obbligati in coscienza ad obbedire» (394).
Soggetto dell’autorità politica, cioè chi la seleziona e ne verifica l’operato, è il popolo «considerato nella sua totalità quale detentore della sovranità. Il popolo, in varie forme, trasferisce l’esercizio della sua sovranità a coloro che liberamente elegge suoi rappresentanti, ma conserva la facoltà di farla valere nel controllo dell’operato dei governanti e anche nella loro sostituzione, qualora essi non adempiano in maniera soddisfacente alle loro funzioni» (Compendio 395).

Questa “responsabilità del popolo”, spesso poco percepita, dovrebbe investire due attori: da una parte i partiti e i movimenti politici, gli intermediari della popolazione presso le Istituzioni e dall’altra i cittadini che pero si mostrano, con il trascorrere del tempo, sempre più indifferenti alle forme partecipative percependo che gli interessi dei rappresentanti non si specchiano, il più delle volte, nelle attese dei rappresentati. Eppure, l’articolo primo della nostra Costituzione, è netto: «… La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
L’auspicio è che i cittadini, superando la diffusa stanchezza, riprendano la buona azione del “votare responsabilmente”, cioè dopo aver letto e studiato attentamente i programmi dei partiti e dei candidati, senza lasciarsi suggestionare e ingannare da programmi altisonanti e da promesse non fattibili.

Ai politici il monito di Benedetto XVI: «mi sembra che dovrebbe crescere il senso della responsabilità in tutti i partiti, che non promettano cose che non possono realizzare, che non cerchino solo voti per sé, ma siano responsabili per il bene di tutti e che si capisca che politica è sempre anche responsabilità umana, morale davanti a Dio e agli uomini» (2 giugno 2012).

Autorità come forza morale

Per il Compendio, l’autorità trae dignità e forza, nell’ordine morale, «il quale si fonda in Dio, che ne è il primo principio e l’ultimo fine»(Pio XII, Messaggio natalizio, 24 dicembre 1945). Di conseguenza, l’autorità, deve riconoscere, rispettare e promuovere i valori umani e morali essenziali; «valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere» (Compendio 397).
È il totale rifiuto della concezione filosofica-politica diffusa prevalentemente nei Paesi anglosassoni, definita “contrattualista”. Il contrattualismo, che ebbe in Thomas Hobbes (1588-1679), John Locke (1632-1704) e Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) i maggiori esponenti, comprende quelle teorie politiche che definiscono la società “un contratto” tra governanti e cittadini, affermando, di conseguenza, che le leggi originano dalla stipula di un accordo fra gli individui fondato sulle opinioni e sui giudizi provvisori e mutevoli della maggioranza. Di conseguenza, nessuna verità, può precedere e superare il consenso dei più e l’assenso di una prevalenza numerica.
Infine, ammonisce il Compendio, l’autorità come “forza morale”, deve emanare leggi giuste, cioè conformi alla dignità della persona umana e ai suggerimenti della retta ragione.

Diritto di resistere

Quando una legge è incompatibile con il bene comune, i principi etici, i diritti fondamentali della persona e le convinzioni religiose e morali del singolo, non obbliga in coscienza esorbitando queste dal potere dello Stato, quindi, è doveroso porre in atto l’obiezione di coscienza di cui abbiamo già parlato precedentemente. Oltre all’obiezione di coscienza la DSC suggerisce il diritto di resistenza all’autorità, qualora questa violi gravemente e ripetutamente il diritto naturale. Della resistenza e come attuarla troviamo delle indicazioni al n.2243 del Catechismo della Chiesa Cattolica.

Infliggere le pene

Per tutelare il bene comune, quando si rilevano comportamenti malevoli nei riguardi del prossimo, lo Stato tramite il potere giudiziario esercitato dalla Magistratura, ha il dovere di comminare pene proporzionate al reato commesso.
Ogni pena, ricorda il Compendio, «non serve unicamente allo scopo di difendere l’ordine pubblico e di garantire la sicurezza delle persone: essa diventa, altresì, uno strumento per la correzione del colpevole, una correzione che assume anche il valore morale di espiazione» (403).
Ebbene, correzione ed espiazione, non possono divenire vendette essendo atti di redenzione del colpevole. Chi ha commesso reati sono uomini e donne che stanno espiando con la “perdita della libertà” i loro errori ma non hanno smarrito la loro “dignità di persona”, anche se oggi, molti, vivono questo periodo in luoghi sovraffollati, irrispettosi dei loro diritti e privi di umanità, quindi non in ambienti educativi e redentivi ma in situazioni altamente diseducative e, a volte, moltiplicatrici di delinquenza.
Gli sbagli perpetrati suscitano sentimenti di fallimento e sensazioni d’impotenza; per questo dobbiamo potenziare la dignità di ogni detenuto, infondendogli fiducia e ricordandogli che al di là delle devianze, possiede potenzialità da risvegliare potendo sempre ricominciare.

Il Compendio indica anche le modalità per investigare alla ricerca della verità che riassume nella frase: «pieno rispetto della dignità e dei diritti della persona umana» (404). Ciò significa che un accusato è innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata.
In concreto, il presupposto di innocenza, reclama precisi comportamenti nella conduzione dell’indagine. In particolare: la detenzione preventiva che non può tramutarsi in strumento per ottenere notizie o informazioni; va esclusa la tortura fisica o psicologica; i processi devono essere celebrati con celerità; l’autorità indagante è tenuta alla massima riservatezza.

E, da ultimo, «poiché anche un giudice può sbagliarsi, è opportuno che la legislazione disponga un equo indennizzo per la vittima di un errore giudiziario» (404). Buona pratica ma non contemplata in Italia, non essendo considerata, di fatto, la responsabilità civile dello Stato e dei magistrati e, dove, l’amministrazione della giustizia resta uno dei problemi più urgenti da risolvere coinvolgendo per anni, procurando notevoli sofferenze, e a volte anche distruggendo delle esistenze, centinaia di persone riconosciute poi innocenti. Di conseguenza, un’iniziativa normativa globale e coerente sull’organizzazione giudiziaria e sul sistema processuale civile e penale, è irrimandabile.
Concludendo, il Compendio, giudica positivamente l’avversione dell’opinione pubblica alla pena di morte, poiché il criminale può essere reso inoffensivo senza privarlo definitivamente della possibilità di redimersi (cfr. Compendio 405).

Don Gian Maria Comolli (fine prima parte).