Aggredita online fa condannare il capo-branco

By 12 Maggio 2018Web e Comunicazione

“È fondamentale far sapere che la violenza sul web non resta impunita”.

Nel 2013 la giornalista scientifica Silvia Bencivelli ha scritto un articolo su La Stampa intitolato “Le scie chimiche e la leggenda di una bufala”. Il pezzo smontava una delle più famose teorie complottiste, secondo cui le normali scie di condensazione degli aerei sarebbero in realtà nubi di sostanze chimiche rilasciate non si sa bene da chi nei cieli per avvelenare l’aria e sterminare l’umanità. Dalla pubblicazione dell’articolo in poi, Bencivelli è stata letteralmente sommersa da decine e decine di violenti insulti e messaggi intimidatori. A distanza di cinque anni il tribunale ha condannato a otto mesi di carcere per diffamazione a mezzo web il blogger Rosario Marcianò, una delle figure più in vista del mondo del complottismo in Italia (con un seguito su Facebook di oltre 15 mila persone) e considerato un “esperto” di scie chimiche.

«Quando ho scritto quell’articolo non sapevo che ci fosse un clima così acceso intorno alla questione. Io ho ripercorso la storia della leggenda metropolitana trattandola al livello di quella dei coccodrilli della doccia quanto a verosimiglianza, e poi l’ho smontata da un punto di vista scientifico. Però non sono andata a vedere in Italia chi ci crede, non mi aspettavo tutto questo», racconta Bencivelli.

Dopo meno di mezzora dalla pubblicazione del pezzo, nella casella mail della giornalista iniziano ad arrivare strani messaggi: alcuni le intimavano di vergognarsi per quello che aveva scritto, altri erano più aggressivi, contenenti ogni tipo di insulto o minaccia, la maggior parte a sfondo sessuale. «La reazione iniziale è stata collettiva: mi sono arrivate più di cento mail di tante persone diverse. È stata una cosa di una violenza inaudita, che è andata avanti per giorni. Questa è stata la cosa peggiore, l’aggressione del branco, per cui non è stato punito nessuno», ricorda Bencivelli.

Nel frattempo altri utenti le segnalavano che su Facebook c’era una persona, Rosario Marcianò, che dalla propria pagina istigava la gente a scriverle e attaccarla privatamente. La giornalista però non solo non aveva citato il blogger nel pezzo, ma non ne conosceva neanche l’esistenza. «Ma lui era la cabina di regia della bufala in Italia, ed evidentemente avevo toccato i suoi interessi. Ragion per cui, proclamava, mi stava “bastonando”», ha scritto in una testimonianza su Repubblica.

Bencivelli racconta di essersi sentita «sgomenta», mentre l’articolo stava diventando virale: «Il giornale era quasi esterrefatto perché stava avendo tantissime condivisioni e like. Quando ho detto alla redazione che ogni ora stavo ricevendo 10-20 mail di insulti, mi hanno chiesto un altro articolo per raccontare questa cosa». La giornalista oramai aveva capito chi era il «capo-branco» che scatenava quella valanga di messaggi, ma non ne aveva la prova diretta.

A quel punto, dopo il secondo pezzo, Marcianò aveva pubblicato un lungo video su Youtube: «Praticamente una telefonata accompagnata da una serie di immagini, ci sono foto della mia faccia prese da Google (…) alternate a foto della sua, a foto di cieli solcati di strisce bianche», ricorda Bencivelli. A un certo punto, prosegue la giornalista, un interlocutore chiede al blogger «che cosa farebbe a una “disinformatrice” come me. La risposta arriva dopo un certo numero di volte in cui il signore spiega che sono una donna, e una donna non dovrebbe permettersi di fare certe cose, e che peraltro sono “una bella donna”, fattore presumibilmente aggravante. E quindi che, insomma, “la Bencivelli… se qualcuno se la va a prendere fa solo bene”».

Il video postato da Marcianò si rivela un passo falso importante per la vicenda: nel filmato, precisa Bencivelli, «c’è lui con la sua faccia e il suo nome e cognome, e questa cosa ha tolto qualsiasi dubbio sull’identificazione del reo e che abbia responsabilità sul branco e responsabilità penali».

La presunta impunità del web

Bencivelli, assieme alla sua avvocata, Cinzia Ammirati, aveva denunciato il blogger per diffamazione a mezzo web, ma in un primo momento era partita una richiesta di archiviazione. Le cose sono cambiate proprio grazie al video. «Il problema nei processi che riguardano i social network è il costo delle rogatorie internazionali per ottenere i dati sui profili da Facebook o dalle altre società coinvolte: dati necessari per l’identificazione certa dei soggetti. Sono procedimenti che costano molto, motivo per cui la maggior parte di queste cause non arriva a processo. Per fortuna, nel nostro caso, è stato possibile identificare Marcianò anche senza rogatoria, grazie a un video che lui stesso ha postato su YouTube, in cui, platealmente, minaccia Silvia Bencivelli», ha spiegato Ammirati. Il pm, tra l’altro, ha ravvisato nei fatti anche gli estremi per un’accusa di minacce.

Secondo Bruno Saetta, avvocato che da anni si interessa e scrive di diritto applicato alle nuove tecnologie, questa vicenda «mostra ancora una volta che il web non è un porto franco dove chiunque può fare quello che vuole godendo di impunità. Un errore dovuto più che altro ai tempi della giustizia che non sono mai brevi, a confronto della rapidità del web. Al web si applicano le medesime norme della vita offline, e l’anonimato di fatto non esiste». Quello che esiste, invece, secondo il legale è «un problema di risorse, sempre più scarse, di cui dispongono le autorità, che fanno fatica a perseguire tutti i reati. Un aspetto peculiare del web è la transnazionalità delle piattaforme, che rende più difficile scoprire chi si cela dietro uno pseudonimo, dovendosi ricorrere, talvolta, a rogatorie internazionali lunghe e complesse». Per facilitare lo scambio di informazioni, però, esistono protocolli tra gli Stati e con le stesse piattaforme. Saetta spiega che da maggio «sarà in vigore la Direttiva 680/2018 che si occupa, appunto, di regolamentare la circolazione dei dati tra le autorità competenti all’interno dell’Ue, al fine di tutelare i cittadini e di prevenire e reprimere i reati», mentre di recente la Commissione Europea ha presentato un progetto di direttiva che si occuperà di facilitare e velocizzare l’accesso ai dati delle piattaforme online, senza passare dal magistrato competente. «Insomma», conclude, «l’impunità sul web non esiste, gli strumenti ci sono e si affinano sempre più. Occorre avere più fiducia nella giustizia».

Un problema, secondo Ammirati, riguarda il diritto all’oblio, troppo difficile da ottenere: «Abbiamo provato, con ripetute richieste, a far rimuovere i video di Marcianò da YouTube: impossibile, li cancella e dopo un po’ li ricarica». Anche per queste difficoltà, secondo la legale, è stato importante andare fino in fondo, scegliendo di «insistere e non arrenderci alla prima richiesta di archiviazione proprio affinché si creasse un precedente. È fondamentale far sapere che la violenza di branco che a volte si scatena sul web, nella convinzione di rimanere impuniti, viene invece condannata».

Le minacce alle giornaliste

Insulti e minacce (a sfondo soprattutto sessuale) sembrano essere all’ordine del giorno per le giornaliste – molto più dei loro colleghi uomini. In un articolo pubblicato quest’inverno sul Columbia Journalism Review intitolato “The cost of reporting while female”, Anne Helen Petersen ha scritto che “abusi e minacce sono diventati la normalità per le donne nel giornalismo. Ma, così come accade con molte cose nella vita delle donne, lo sforzo nell’affrontare questa minaccia è in larga parte invisibile”.

Secondo uno studio condotto nel 2013 dall’ International Women’s Media Foundation (IWMF), su 149 giornaliste che hanno partecipato al sondaggio, circa due terzi avevano subito minacce o ricevuto messaggi violenti in conseguenza del loro lavoro; oltre il 25% delle “intimidazioni verbali o scritte, incluse quelle rivolte a familiari o amici” avevano avuto luogo online. Una ricerca del 2014 condotta da un’organizzazione non-profit britannica, invece, aveva mostrato come il giornalismo fosse l’unica categoria tra quelle che includevano personalità esposte al pubblico (le altre erano celebrità, politici e musicisti) in cui le donne ricevevano su Twitter una quantità di insulti tre volte superiore ai loro colleghi maschi. Più empiricamente, nel 2016 il Guardian ha analizzato i commenti offensivi postati sotto agli articoli: nella “top 10” dei giornalisti più colpiti, otto erano donne, gli altri due erano uomini neri; la “top 10” dei meno colpiti era composta solo da uomini.

All’inizio di quest’anno il Center for Media Engagement dell’Università di Austin ha intervistato 75 giornaliste professioniste, che lavorano o hanno lavorato nei media in Germania, India, Taiwan, Regno Unito e Stati Uniti. “Quasi tutte le giornaliste che abbiamo sentito hanno riferito di aver subito qualche forma di molestia online, focalizzata sulla loro persona, sul loro genere o sessualità”, si legge nel report, che riporta la citazione di un’editor che ha lavorato per un media tedesco: “Non erano critiche al mio lavoro; era la distruzione della mia persona”. Alcune giornaliste coinvolte, tra l’altro, hanno espressamente notato come le offese fossero differenti rispetto a quelle subite dai colleghi uomini, perché includevano “attacchi sessisti o, talvolta, minacce di violenza sessuale”.

Dallo studio emerge come le aggressioni siano state più feroci quando le giornaliste si sono occupate di articoli “su argomenti normalmente associati agli uomini, come automobili o videogame. Anche argomenti divisivi, come immigrazione, razza, femminismo o politica, sembravano suscitare maggiori offese”.

Silvia Bencivelli si è chiesta spesso se le cose, nel suo caso, sarebbero andate allo stesso modo se a firmare quell’articolo fosse stato un uomo. Ne ha parlato con diversi colleghi maschi che avevano trattato l’argomento scie chimiche, scoprendo che anche loro erano stati presi di mira e insultati, ma in maniera diversa. «Con una donna c’è la sensazione che questa si difenda meno, e quindi la virulenza dell’attacco è stata maggiore che nel caso dei colleghi uomini», racconta. Inoltre, tutto assume un connotato sessuale, il che rende minacce e insulti più pesanti.

Secondo la giornalista, infatti, «la minaccia di morte, tutto sommato, è così inverosimile che a livello psicologico non fa tantissimo male. Invece la minaccia o l’insulto sessuale te li senti entrare nella pelle, è tutto più plausibile. Non sei nel mondo dell’irrealtà come nella minaccia di morte, sei nel mondo della possibilità reale e quindi questo ti crea molto più disagio». Quindi, aggiunge, «probabilmente se fossi stata un uomo sarebbero stati meno reattivi, avrebbero avuto meno reazioni di branco di maschi su un essere indifeso – che è stata una cosa tremenda – e non avrebbero avuto quegli argomenti lì».

Un meccanismo che si scatena, in questi casi, è che la vittima si senta responsabile di qualcosa. Anche Bencivelli, per diverso tempo, ha creduto di aver commesso una stupidaggine o qualche leggerezza. «Si tende a scaricare almeno una parte della colpa sulla vittima. E questo avviene continuamente, l’ha scritto anche il pm. Cose tipo “Ma tu cos’hai fatto per scatenare tutto questo”, come a dire “non me l’hai detta tutta, magari avevi una tua foto in mutande”. Il concetto che dobbiamo metterci in testa è che noi dobbiamo poter girare anche nude per strada, niente giustifica una violenza sessuale». Tra l’altro, aggiunge, «se sei un minimo esposta sembra che il branco si senta più autorizzato. Questo senso di colpa ce lo mettono in testa sin da piccole. Ti viene detto di non correre rischi. Io però non ho corso nessun rischio, ho scritto un articolo da casa mia».

Julie Posetti, una giornalista australiana che dal 2011 si occupa di molestie verso i giornalisti sul web, ritiene che questo problema sia solitamente legato al genere: gli attacchi nei confronti delle giornaliste donne sono spesso sessualizzati e personali, e prendono di mira l’appartenenza etnica delle donne, il loro aspetto fisico, l’orientamento sessuale, le credenze religiose e i membri della famiglia. Possono comprendere immagini create appositamente per denigrare le vittime, come “immagini di donne stuprate o giornaliste trasformate in meme”. Si tratta di attacchi che per Posetti hanno lo specifico intento di “generare paura, minare la credibilità e causare la ritirata delle giornaliste che stavano scrivendo inchieste o articoli critici verso personalità o istituzioni”.

Ventiquattro delle professioniste intervistate dall’Università di Austin, ad esempio, hanno dichiarato di aver sviluppato “strategie per far fronte a questo problema”, tra cui limitare cosa postare online, ignorare i commenti, modificare la scelta delle storie da coprire e persino utilizzare strumenti tecnologici per impedire alle persone di postare commenti offensivi sulle loro pagine sui social media.

Secondo Dunja Mijatović, che dal 2010 al 2016 è stata rappresentante OSCE per la libertà dei mezzi di informazione, nonostante anche i giornalisti uomini siano soggetti a insulti e messaggi offensivi online, le colleghe donne “affrontano online una quantità sproporzionata di minacce e molestie basate sul genere”. Nel 2015 l’OSCE si è occupata della questione, con uno studio che ha mostrato come le minacce, gli abusi e le intimidazioni di genere abbiano un impatto diretto sulla sicurezza delle giornaliste e sulle loro attività online. Courtney Radsch, advocacy director per il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) ha partecipato all’analisi e ha spiegato come l’OSCE e altre realtà non chiedano l’approvazione di nuove leggi perché “in molti casi le normative contro stalking, minacce violente e molestie esistono già. Semplicemente vanno interpretate e applicate al web”.

Il report contiene una serie di raccomandazioni per le testate giornalistiche: adottare linee guida generali per identificare e monitorare gli abusi online; assicurare che le giornaliste che subiscono offese online – sia assunte che freelance – abbiano accesso a un sistema di supporto, sia psicologico che legale; creare una cultura aziendale di parità di genere e tolleranza zero nei confronti di minacce e molestie; mettere in atto procedure chiare e trasparenti per la moderazione dei commenti, proteggendo la libertà di espressione; lavorare con altre testate e associazioni per creare programmi di supporto e formazione per giornaliste e operatrici dei media.

Una delle cose da fare, secondo Helen Lewis, deputy editor di New Statesman, è “avere più donne giornaliste, più donne che scrivono le news, più donne che commentano. Normalizzando la partecipazione delle donne nella vita pubblica, credo che la situazione potrebbe migliorare, perché le persone si abituerebbero al fatto che le donne hanno delle opinioni. Lo troverebbero meno provocatorio, minaccioso e preoccupante”.

Per l’OSCE, comunque, le offese e le minacce online alle giornaliste “vanno affrontate nel contesto più ampio delle discriminazioni di genere e della violenza contro le donne, per assicurare che gli stessi diritti siano protetti sia offline che online”. Anche perché, come scrive Nani Jansen Reventlow, avvocata per i diritti umani e fondatrice del Digital Freedom Fund, “la distinzione tra mondo ‘online’ e ‘offline’ è artificiale”, perché qualsiasi molestia online avrà sempre un effetto nel “mondo reale”: “Il fatto che il mezzo utilizzato per la minaccia sia digitale non significa che la paura e l’ansia che ne conseguono siano meno reali”.

Reventlow sostiene che la questione delle molestie e minacce alle giornaliste necessiti un inquadramento da tutte le prospettive rilevanti: come un problema di violenza di genere contro le donne, ma anche come un problema di libertà di espressione.

“Le molestie online alle giornaliste impediscono alla stampa libera di operare come dovrebbe, il che colpisce negativamente il processo democratico. C’è spesso la tendenza a classificare le questioni di genere come cose ‘di nicchia’. Dal momento che le donne costituiscono metà della popolazione mondiale, questo diventa un argomento discutibile in quanto tale, e tra l’altro semplicemente non è veritiero”, scrive la legale.

“Silenziare giornalisti soffoca il libero flusso di informazioni e la nostra possibilità di esercitare i nostri diritti democratici. Un panorama dei media ispirato al pluralismo ha bisogno di includere le voci delle donne. Silenziare le giornaliste quindi costituisce un attacco alla democrazia stessa, ed è un problema che andrebbe affrontato con la gravità che merita”.

di Claudia Torrisi

Fonte: https://www.valigiablu.it/rosario-marciano-condannato/