La storia. Salvata dalle scimmie, rinata in Italia

By 3 Settembre 2018Senza categoria

Madou Yankaa: «Io, scampata nella foresta alla guerra dei diamanti, oggi ringrazio il Veneto».

«Sono state le scimmie a insegnarmi come procurarmi l’acqua. Loro scavavano e io ho fatto uguale». Era una bambina e del tutto indifesa, Madou Yankaa, quando per salvarsi dagli uomini finì per vivere con gli animali della foresta nella Sierra Leone, «i piccoli animali che mi consolavano». Era all’incirca il 1995 e in casa sua fino a quel giorno si era respirato amore. In fondo non mancava nulla, papà lavorava in banca a Freetown, e mamma Aminata proteggeva con tenerezza quella figlia nata diversa dagli altri bambini, con la bocca sempre spalancata e una malformazione scheletrica che non le consentiva la posizione eretta, costringendola a vivere rannicchiata come quando Aminata la portava in grembo.

Ma oggi che ha (forse) 28 anni, Madou conserva indelebili le immagini del massacro. «Ero piccolina ma ricordo bene i ribelli entrare in casa nostra, sparare a mia mamma, a mio papà, a mio fratello, a mia sorella e alla nonna, poi li hanno bruciati davanti ai miei occhi». Solo la bimba sopravvisse alla strage, perché nonostante il terrore di ciò che aveva visto ebbe la prontezza di restare immobile e fingersi morta. Quando i ribelli se ne andarono, Madou a quattro gambe scappò verso la foresta, «e lì sono vissuta da sola per un tempo che non so definire, forse anni, nascondendomi agli esseri umani e vivendo con gli animali». Lo tsunami che le portò via tutto ha un nome, “Guerra dei diamanti”, il sanguinoso conflitto civile scoppiato nel 1991 e durato 11 anni, alla fine dei quali mancarono all’appello 50mila vite. «Nella foresta mangiavo quello che la natura mi offriva e dormivo per terra».

Impossibile non pensare a Mowgli, il figlio della giungla romanzato da Rudyard Kipling e animato dal cartone di Walt Disney, anche lui piccolo orfano, cresciuto dai lupi e deciso a non tornare mai più nel villaggio degli uomini, fino a quando, dopo mille avventure, l’incontro con la bella Shanti non lo convincerà a rientrare nella sua specie… Ma quella di Madou è storia vera, tra voragini di ferocia e vertici di amore.

Ce la racconta a modo suo, aiutata da un sintetizzatore vocale che parla attraverso il suo smartphone leggendo le frasi che lei digita. «La lunga denutrizione e il mancato uso delle mascelle fin dalla nascita hanno atrofizzato la muscolatura e tuttora parlare e mangiare mi è difficile», ci spiega nella casa di Cittadella, in provincia di Padova, dove dal 2005 ha trovato una nuova famiglia italiana. Anna Bonaldo, 63 anni, e Paolo Tonelotto, 64, sono i suoi genitori, Cristina (38), Daniele (35) e Lucia (27) sono i loro figli naturali, “i miei tre fratelli di cuore meravigliosi”, ci dice Madou. Ma di questa famiglia, che in trent’anni di associazionismo nella Comunità “Papa Giovanni XXIII” di don Benzi ha visto passare un centinaio di “figli”, parleremo poi.

Un giorno un uomo la vide nella foresta e la portò in un campo profughi, dove la Provvidenza mandava ogni settimana in visita padre Giuseppe Berton, missionario saveriano di Marostica, nel Vicentino, che a Freetown aveva una casa di accoglienza per ex bambini soldato. I responsabili del campo profughi fecero notare al missionario che la piccola, costretta a muoversi a quattro gambe e con la mascella paralizzata, era mal messa: «Mangiavo gli ultimi chicchi di riso che restavano nella ciotola comune e perciò non ero nutrita adeguatamente. Padre Berton mi portò nella sua casa di accoglienza e con tanta fisioterapia mi restituì una posizione quasi eretta». Ma restava ancora quella bocca sempre aperta…

Nel 2005 (prima data certa di questa storia) a Freetown giunsero da Cittadella alcuni volontari dell’associazione “Una proposta diversa” fondata da Anna e Paolo, per aiutare il missionario con l’impianto elettrico. È Anna ora a raccontare: «Videro questa ragazzina che non potendo masticare macinava il riso con la lingua contro il palato, e pochi mesi dopo Madou era già in Italia per essere operata», con sei mesi di permesso umanitario, la Regione Veneto che si faceva carico delle spese sanitarie e l’associazione che pagana tutto il resto. Aveva (circa) 15 anni quando arrivò, ma pesava 32 chili e i medici dell’ospedale di Vicenza ordinarono prima di tutto una buona dieta ingrassante. «Per fortuna esiste il gelato, ci andava pazza», ride Anna, ma Madou ci ha messo poco ad appassionarsi alla cucina italiana, pizza compresa, «capace con la lingua di tritare tutto contro il palato». L’intervento chirurgico maxillofacciale è stato possibile solo nel 2008 e finalmente, dopo 18 anni dalla nascita, per la prima volta la ragazza ha potuto chiudere la bocca. Purtroppo il sogno di parlare è rimasto irrealizzabile, eppure ha del miracoloso come Anna e Paolo capiscano perfettamente i suoni, per noi incomprensibili, che Madou emette dialogando con loro: «In fondo viviamo insieme da 13 anni».

Restano tanti misteri nella sua vita, anche l’età è approssimativa, e la data di nascita scritta sul passaporto (29 maggio 1990) è di fantasia, «il 29 maggio era il giorno in cui facevamo i documenti, il 1990 l’ha scelto una donna annusando la bambina, come usavano al villaggio», sorride la madre. Madou interviene spesso e controlla sul taccuino della giornalista che tutto corrisponda. Tiene soprattutto a specificare che il 25 aprile del 2014 a Verona ha trovato anche la forza titanica di perdonare gli uomini che sterminarono la sua famiglia: «Partecipavo con gli amici all’evento “Arena di pace e disarmo» e lì Dio mi diede il coraggio. Sono felice del mio cammino di fede perché sono nata in una famiglia che era cattolica, a casa pregavamo assieme e la domenica andavamo a Messa a Freetown. Anche oggi, quando ne sento il bisogno, prendo l’autobus per Padova e vado al Santo dal mio padre spirituale. È stata mia mamma a insegnarmi fin da piccola ad affidarmi a Dio».

Un Dio contro cui si è anche scagliata, chiedendogli perché l’avesse creata così, e di lasciarla morire, ma c’erano sempre Anna e Paolo e i tre fratelli di cuore a spiegarle che se era sopravvissuta in quella tragedia il Signore aveva un progetto importante su di lei, che si sarebbe rivelato poco per volta. Anna in realtà lo vede già chiaro: «Viviamo nel Veneto leghista, nei nostri paesi guai a parlare di immigrati, ma Madou tocca i cuori di tutti, è strumento di conversione e di annuncio, e dà la possibilità a molti di fare il bene». Come al vivaista che da anni in primavera le dà il posto di lavoro, e alla gente di Cittadella, dove tutti la coccolano «anche troppo, la viziano, la proteggono. Perché Madou non è “un’immigrata”, è un incontro, una relazione, e questo cambia i sentimenti». E poi perché nel Dna dei veneti resta tanto di quel patrimonio spirituale ed umano di quando Cittadella, chiamata “la canonica d’Italia”, negli anni ’70 contava ben 38 missionari comboniani e saveriani nel mondo.

Qui Madou, che in Africa ovviamente non era mai andata a scuola, ha frequentato le medie e si è diplomata all’alberghiero perché, spiega, «i miei genitori volevano rendermi autonoma e integrata». Oggi lavora tutti i giorni, dividendosi tra la segreteria dell’associazione “Una proposta diversa”, le pulizie e la cura del Duomo di Cittadella, il vivaio. Ma una vera idea del suo futuro se l’è fatta a gennaio, quando per la prima volta dopo 13 anni è tornata a rivedere Freetown, i luoghi del massacro ma anche dell’incontro con chi le ha voluto tanto bene. Un viaggio che desiderava da tempo «per ritrovare la mia gente e capire se potevo restituire quanto avevo ricevuto».

La prima cosa che ha chiesto è stata di andare in un cimitero qualsiasi, “perché i miei cari non avevano una tomba ma quel luogo li rappresentava”. Poi ha voluto visitare il suo quartiere, il campo profughi, la ex casa per bambini soldato di padre Berton (oggi diroccata), “è stato emozionante, mai avrei immaginato che i compaesani mi riconoscessero, a vedermi esclamavano il mio nome come di fronte a un miracolo: ero tornata da chissà dove, camminavo eretta e la mia bocca ora sorrideva. Anche io ero stupita, le strade erano asfaltate, nelle case era arrivata la luce elettrica, inoltre la gente era tutta giovane e con tanti bambini, sempre allegri anche se avevano poco. Sono ripartita con la consapevolezza che lasciavo la mia gente nella dura povertà e da allora il mio pensiero corre là, a come potrò aiutare quelle persone, magari tornare e restare più tempo, con l’aiuto della mia famiglia”.

Anna e Paolo sorridono, per loro non è nulla di nuovo. Sposati da 40 anni, da 30 hanno dato vita alla prima delle case-famiglia di don Benzi, viaggiando in missione in 20 Paesi del mondo. Dei loro tre figli naturali Cristina oggi è missionaria laica in Estremo Oriente, Daniele e la giovane moglie hanno una casa-famiglia della “Papa Giovanni XXIII” a Rimini dove con i loro tre bambini accolgono minori in difficoltà, e Lucia lavora per la “Papa Giovanni XXIII” al Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite a favore degli ultimi. Ma poi da ogni stanza escono i “figli di cuore” e allora per orientarmi Anna mi mostra il loro “albero della Vita” appeso alla parete, ogni foglia una foto e una storia umana delle cento che in 30 anni sono passate per questa casa. “Non è aggiornato – si scusa – mancano gli ultimi dieci anni”. Madou è solo una delle fronde.

Lucia Bellaspiga

Avvenire.it, 14 agosto 2018