Un ricordo del card. Caffarra nel primo anniversario della morte

By 29 Settembre 2018Testimoni

Nel primo anniversario della morte del cardinal Carlo Caffarra, il 6 settembre si è tenuta a Roma in Senato (Palazzo Madama, sala dei caduti di Nassirya) una conferenza stampa per ricordare la figura e il magistero di questo principe della Chiesa cattolica, durante la quale sono stati presentati gli atti del convegno organizzato nella capitale il 7 aprile 2018 dagli Amici del cardinal Caffarra in suo onore con il titolo “Chiesa cattolica, dove vai? Solo un cieco può negare che nella Chiesa vi sia una grande confusione” (edizioni Fede & Cultura, Verona 2018). Alla conferenza stampa sono intervenuti il cardinal Raymond L. Burke e l’ostetrica Flora Gualdani, moderati da Francesco Agnoli.

Pubblichiamo qui il ricordo del cardinal Caffarra nella testimonianza di Flora Gualdani, in una versione ampliata contenente il saluto della fondatrice di Casa Betlemme e il discorso rivolto da Caffarra a questa fraternità di laici il 24 giugno 2017. Il discorso è conservato nell’archivio del sito www.caffarra.it ed è riportato per estratti nel libro C. Caffarra, “Prediche corte, tagliatelle lunghe. Spunti per l’anima” (a cura di L. Bertocchi e G. Carbone OP, edizioni Studio Domenicano, Bologna 2017).

di FLORA GUALDANI  (ostetrica, fondatrice dell’opera Casa Betlemme di Arezzo)

Il cardinale Carlo Caffarra è uno dei giganti che ebbi come docente nei primi anni ’80 a Roma durante i corsi che frequentavo all’Università Cattolica del Sacro Cuore. In quel periodo di aggiornamento ho avuto il privilegio di conoscere, accanto a lui, quelli che considero i miei grandi maestri, i giganti della fede e della scienza: all’epoca infatti, mentre sedute di fianco a me come studenti c’erano le suore inviate da Madre Teresa di Calcutta,

i relatori che avevamo davanti erano figure come la psichiatra polacca Wanda Połtawska (monumento vivente della bioetica), i coniugi Billings che venivano dall’Australia e la ginecologa Anna Cappella (pionieri nella regolazione naturale della fertilità), l’allora mons. Sgreccia (bioeticista padre del personalismo ontologicamente fondato), oppure il padre della genetica moderna, Jerome Lejeune. Ma sopra tutti c’era san Giovanni Paolo II il quale, dopo ogni congresso internazionale, non si limitava ai suoi discorsi pubblici di incoraggiamento, ma voleva riceverci per essere continuamente aggiornato sugli sviluppi sia scientifici che pastorali a livello mondiale sul tema della procreazione responsabile. Una volta, superando tutti gli appuntamenti che aveva in agenda, volle addirittura riceverci prima di cena nel suo appartamento. San Giovanni Paolo II aveva legato tra loro tutti questi giganti e, ponendoli nei vari dicasteri, li aveva scelti come luminosi consulenti moderni della sana Dottrina sulla delicata materia della procreatica. A Lejeune, dopo averla istituita, aveva affidato la Pontificia Accademia per la vita, chiedendogli di scrivere lo Statuto. Ed è insieme a questo luminare francese che il Prefetto Ratzinger aveva redatto l’istruzione bioetica Donum vitae.

Caffarra aveva avuto nel 1970 uno scontro durissimo con Häring e Chiavacci sul tema dell’Humanae vitae, tanto da volersene andare dall’associazione dei teologi moralisti. Il papa chiese a lui di fondare il Pontificio “Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia”. L’inaugurazione era prevista per il 13 maggio 1981 ma la cosa saltò perché il papa subì l’attentato. Quell’Istituto, che Wojtyla aveva affidato alla Madonna di Fatima, era malvisto anche dentro la Chiesa a causa della visione che proponeva. Caffarra doveva dirigerlo e ne era preoccupato. Così scrisse una lettera a suor Lucia di Fatima chiedendole preghiere. Dopo qualche settimana ricevette inaspettatamente una lunga risposta autografa che finiva così: «verrà un momento in cui la battaglia decisiva tra il regno di Cristo e Satana sarà sul matrimonio e sulla famiglia. E coloro che lavoreranno per il bene della famiglia sperimenteranno la persecuzione e la tribolazione. Ma non bisogna aver paura, perché la Madonna gli ha già schiacciato la testa». Da quella lettera Caffarra trasse la forza per affrontare tutte le difficoltà e le umiliazioni che ha dovuto accettare fino all’ultimo.

Delle sue lezioni al Policlinico Gemelli ricordo la chiarezza: erano profonde e sistematiche ma semplici, le avrebbe capite chiunque. Anche quelle lezioni ho cercato di divulgarle e di trasmetterle ai miei collaboratori. Alla fine della lezione vedevi monsignor Caffarra che si concedeva una sigaretta. Era il fedele teologo di san Giovanni Paolo II, il papa della famiglia: c’è la sua mano dietro encicliche fondamentali come Evangelium vitae e soprattutto Veritatis splendor. Con i suoi insegnamenti ha continuato fino alla fine a proclamare lo splendore della verità. Spiegandoci il legame tra verità, coscienza e libertà. Lui rimane per la Chiesa un faro nella notte. E, pensando al sinodo dei giovani, suonano oggi perfette le parole con cui dieci anni fa a Roma, in una stupenda Lectio magistralis all’Università Cattolica del Sacro Cuore per il 40esimo dell’Humanae vitae, spiegò che la sfida educativa urgente a cui siamo chiamati è quella di «aiutare le giovani generazioni a trascendere se stessi verso la verità. Cioè, a essere veramente liberi e liberamente veri» (E. Giacchi-S. Lanza, Humanae vitae. Attualità e profezia di un’Enciclica, Vita e Pensiero, Milano 2011 – Atti del congresso internazionale).

Ci siamo incontrati di nuovo il 29 ottobre 2016 in un corso di formazione organizzato dall’associazione “Vita è” a Cella di Noceto. Prima del suo vigoroso intervento, davanti a Caffarra toccò a me parlare della situazione in cui si trovano le due encicliche Humanae vitae ed Evangelium vitae. La mia relazione si sintetizzava nell’espressione “Dall’utero a Lutero”: analizzando le condizioni dell’enciclica di Paolo VI, dopo un’anamnesi storica e pastorale, esposi la mia personale diagnosi e la terapia. E affondai il bisturi sul tema centrale della castità. Questione basilare per ogni vocazione: per la fedeltà e la felicità degli sposi, per la salute dei nostri giovani, per l’equilibrio di una vita consacrata, e per il bene di una persona con tendenza omosessuale.

Da quella sera, dopo essere stata una sua giovane allieva, mi sono ritrovata ad essere in breve un’anziana amica del cardinale Caffarra. Per l’esattezza gli feci notare che eravamo coetanei. E lui, con la sua tipica ironia raffinata, mi rispose che le donne i loro anni li sanno portare meglio degli uomini.

Per proseguire privatamente il nostro colloquio mi ricevette qualche tempo dopo a Bologna. Mi spiegava che alla sua età, ormai in pensione, pensava che si sarebbe potuto finalmente riposare. Invece, con le vicende del Sinodo, si ritrovava dentro una tempesta ecclesiale dove era impegnato più che in gioventù e, per amore della Chiesa di Cristo, si sentiva in dovere di dire alcune cose, se necessario anche alzando la voce. Parlavamo dei dubia. Lui ed io ci eravamo esposti pubblicamente sul tema della confusione che si stava delineando nel cattolicesimo. Tra le prime voci italiane preoccupate, dalla mia piccola postazione ostetrica io mi ero permessa di affermare con un microfono accademico (mentre ricevevo un premio prolife a Roma il 3 maggio 2014) che «se sopra la disinformazione ci seminiamo confusione, alla fine raccoglieremo devastazione». Lui dai piani più alti della Chiesa, nel suo ruolo di principe, nel gennaio 2017 aveva rincarato la dose rilasciando un’intervista dolorosa che conteneva una denuncia: «solo un cieco può negare che nella Chiesa ci sia grande confusione». Mi parlava del modo rispettoso e filiale con cui aveva chiesto e poi implorato una risposta che desse chiarezza sopra la confusione crescente. Durante un nostro colloquio, in un momento di sconforto alzò le mani e lo sguardo al cielo sfogandosi: «ma il Signore non lo vede in che condizioni è la Sua barca?!». Si riprese subito dicendo che questa è la tentazione che vissero anche gli apostoli quando si trovarono in mezzo al lago dentro una bufera di vento e di onde mentre Gesù si era incredibilmente addormentato. Usando le parole di Dante mi spiegava che la Chiesa, nella sua storia, ne ha vissuti altri di questi momenti, quando sembrava “senza nocchiero e in gran tempesta”.

Il cardinale Caffarra non era soltanto un principe e un grande dottore della Chiesa. Era un pastore buono, coraggioso e sapiente, dall’enorme umiltà. Ci siamo sentiti altre volte al telefono. Aveva apprezzato molto una mia lunga catechesi dedicata alla grandezza della Maternità della Madonna, che avevo tenuto a Roma nel dicembre 2016 a Santa Maria in Vallicella. Mi confidò che gli avevo fatto venir voglia di tirare fuori dal cassetto un vecchio lavoro incompiuto che lui aveva avviato sulla figura di Maria. Abbiamo parlato a lungo della Madonna. Riflettendo sul tema della Corredentrice, gli dicevo che oggi mi pare urgente esaltare la figura di Maria poiché c’è una forte corrente teologica che vorrebbe, per ragioni diplomatiche, minimizzare il ruolo della Madonna, relegandola al devozionismo da vecchiette: «scusi Eminenza, ma secondo lei, agli occhi del Figlio di Dio sarà più importante non disturbare i protestanti o non offendere la Sua Mamma?». Il cardinale sorrise e mi dava ragione. Sempre immergendoci nel mistero dell’Incarnazione, c’era un altro punto su cui ci confrontavamo: io sostengo che il concepimento di Gesù, essendo avvenuto nel corpo di una donna senza concorso di uomo, andrebbe definito come transustanziazione della materia (cioè dell’ovulo di Maria) per opera dello Spirito Santo, grazie al magnifico “consenso informato” dato da Maria all’angelo. Lui mi raccontava che Paolo VI, in mezzo alle turbolenze teologiche del ’68, si raccomandava di usare il termine “transustanziazione” rigorosamente soltanto per la Messa. Infatti – gli rispondevo – sono profondamente convinta che, in realtà, la prima Messa e la prima Santa Comunione sono avvenute proprio in quel tabernacolo, l’utero della Madonna: dove la materia è divenuta corpo di Cristo. E Maria è stata così la prima persona a ricevere il corpo e il sangue di Cristo.

Caffarra desiderava venire a Casa Betlemme (Arezzo) per conoscere la fraternità dei miei collaboratori. Per evitargli la fatica del viaggio, organizzammo una prima trasferta a Bologna e ci ricevette il 24 giugno 2017 nel suo appartamento in un afoso pomeriggio. Premuroso come un padre, si preoccupava del poco spazio in cui ci accoglieva. Invademmo quel piccolo appartamento con una carica di vita e di giovani coppie entusiaste con i loro bambini e lattanti. Dopo averci offerto un pò di acqua fresca, ci fece accomodare tutti quanti, si sedette davanti all’altare e ci regalò un bellissimo discorso a braccio, di incoraggiamento sul carisma betlemita e sulla nostra moderna missione nella Chiesa. Durante la celebrazione della Santa Messa nella sua cappella, al momento dell’Offertorio ognuno di noi fece la promessa nelle mani del cardinale, il quale pose con cura tutti quei fogli firmati sull’altare a fianco del calice.

Alla fine ci trattenemmo ancora per alcuni consigli e suggerimenti che volle darmi. Ci salutò uno per uno, era stanco ma felice. Mi diceva che i medici gli avevano riconosciuto un cuore giovane in una “carrozzeria” malandata. In agosto ci risentimmo al telefono mentre era in vacanza e dovevamo confermare un nuovo appuntamento per metà settembre. Quell’incontro è rimandato nell’Alto dei Cieli. Dove lui adesso, con la potenza dei santi, può lavorare in totale libertà a proteggere e risollevare la Chiesa di Cristo dal fango in cui si trova. Per questo lo vogliamo ricordare con immensa riconoscenza.

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