LA FEDE NEL TEMPO DELLA MALATTIA

By 17 Gennaio 2020Pillole di saggezza

Nell’avvicinarsi della XXVIII GIORNATA MONDIALE DEL MALATO, proporremo in queste settimane come “Pillole di saggezza” alcune riflessioni sulla sofferenza in rapporto alla fede.

La fede nel tempo della malattia

Gesù richiese ai malati che guarì, e a volte anche ai loro familiari ed amici, una profonda fede in Lui!

Emblematico è l’episodio della guarigione della ragazza posseduta da uno spirito impuro (cfr Mt. 15,21-28), operata a una malata psichica, come conseguenza della sconfinata fede della madre disperata. La donna, una cananea, per la legge ebraica non poteva accostare un ebreo. Ma lei si rivolge al Signore Gesù comunicandogli il suo dramma: «Pietà di me Signore, figlio di Davide! Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio». Il primo atteggiamento del Maestro è sorprendete: «Non le rivolse neppure la parola» e immediatamente le disse: «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d’Israele». Cioè, non posso esaudirti, perché tu sei una figlia di Canaan, e io sono stato inviato per gli israeliti. La donna non si scoraggia, si prostra ai suoi piedi e lo supplica nuovamente: «Signore aiutami». La seconda risposta è più dura della prima: «Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini». Ma la fede tenace di quella madre, il suo grido carico contemporaneamente di speranza e di angoscia vince le ritrosie del Messia che commentò: «Davvero grande è la tua fede».

La fede è la condizione essenziale perché la richiesta di guarigione, di miglioramento o di accettazione della sofferenza sia esaudita.

Un esempio eloquente lo fornisce Giobbe. Il libro di Giobbe inizia narrando la prosperità di questo giusto (cfr Gb. 1,1-5) che improvvisamente si interrompe ed immediatamente in lui sgorga  l’interrogativo di ogni malato: «Che male ho fatto perché Dio mi punisca così» (cfr Gb. 3). Tre pseudo-amici (Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita, Zofar il Naamatita) che lo visitano ricchi di certezze e di saperi, si impegnano a convincerlo che le considerevoli disavventure che sta subendo sono la conseguenza di colpe personali, trasformando la vittima in colpevole. La sofferenza, a loro parere, è stabilita da Dio, assolutamente giusto, per salvaguardare nel cosmo un ordine basato sulla giustizia. Disse Elifaz a Giobbe: «Ricordalo: quale innocente è mai perito? E quando mai furono distrutti gli uomini retti? Per quanto io ho visto, chi coltiva iniquità, chi semina affanni, li raccoglie» (Gb.4,7). E il loro unico consiglio è il pentimento e la confessione della colpa: «Se tu dirigerai a Dio il cuore e tenderai a lui le tue palme, se allontanerai l’iniquità che è nella tua mano e non farai abitare l’ingiustizia nelle tue tende, allora potrai alzare la faccia senza macchia e sarai saldo e non avrai timori» (Gb. 11,13). Ma Giobbe si ribella: «Voi siete raffazzonatori di menzogne, siete tutti medici da nulla. Magari taceste del tutto! Sarebbe per voi un atto di sapienza» (Gb. 13,4). E anche Dio, al termine del testo, li rimprovera: «Voi non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe» (Gb. 42,7). Dunque, da una parte, Giobbe si ritiene vittima innocente di un’incomprensibile decisione di Dio; dall’altra, da credente, confida strenuamente nell’amore del Creatore (cfr Gb. 42,2-4). Per lui, il dramma più gravoso, è il silenzio di Dio; attende la sua risposta e non si dà pace, finché non la ottiene. Questa fiducia, al termine, gli dà ragione; il libro si conclude affermando: «(di nuovo) possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine. Ebbe anche sette figli e tre figlie (…). Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant’anni e vide figli e nipoti di quattro generazioni» (Gb. 42,12-16). Commenta il biblista G. Helewa: «L’autore del testo, ha voluto farci assistere ad una metamorfosi: da grande sofferente alla ricerca di Dio qual’era, Giobbe si è convertito in una grande credente che ha trovato e ha avuto fede nel suo Dio» (AA. VV., Dizionario di Teologia pastorale sanitaria, Camilliane 1997, 1169). E il cardinale G. Ravasi aggiunge: «L’intuizione fondamentale di Giobbe è questa: quando si è nel dolore, bisogna avviarsi sulla strada della fede personale per cercare un incontro diretto con Dio, senza lasciarsi distrarre dai percorsi prefabbricati e dalle spiegazioni di seconda mano. Il dolore è il momento ideale per parlare di Dio in modo puro, impedendosi di dare ascolto a tante motivazioni che non sono libere e disinteressate» (Conoscere la bibbia, Vol. V° Corriere della Sera 2006, 487).

Credere è mantenersi in costante obbedienza nei confronti di Dio e del Suo progetto anche nel tempo della malattia con quella fede che riscontriamo quotidianamente nella docilità di molti malati che accolgono la sofferenza e sopportano trattamenti dolorosi con serenità, non fuggendo o reagendo negativamente, ma offrendo al Signore Gesù il loro strazio, convinti che Lui gradirà questo dono.

Gli eventi negativi della vita ci provocano la sensazione di affogare nel mare in burrasca e sfidano la fede. Pensiamo al bambino malato gravemente, ad una diagnosi infausta di un giovane, ad una patologia invalidante… Il Signore Gesù, anche oggi, risponde a noi come agli apostoli timorosi, sulla barca nel lago di Genezaret, in una notte di tempesta, mentre Lui dormiva (cfr  Mc. 4,35-41): «Perché siete così paurosi? Perché non avete ancora fede». E aggiunge per noi: «Cosa è grave? Una malattia, una disgrazia, la morte, oppure non esistono circostanze più pericolose che assalgono l’uomo?». Ci interroga se l’estirpare un tumore o la guarigione da una grave patologia è più rilevante che salvaguardare l’uomo dal peccato. Spesso non sappiamo fornire una risposta. Ripensando al catechismo ammettiamo la gravità del peccato, ma la nostra sensibilità, plagiata dalla cultura odierna, ci porta a sostenere che sono più gravose le malattie e le disgrazie. Per questo, Gesù, anche oggi, dichiara: «Abbiate fede, io vi libero da un pericolo maggiore e vi dono la salvezza». Cristo partecipa alle singole sofferenze; guarì alcuni malati ed accolse tutti i bisognosi d’aiuto, ma contemporaneamente asserì il valore più importante da salvaguardare. Per questo, d’innanzi alla nostra sofferenza nostra o a quella degli altri, non possiamo rimproverare quello che è considerato il sonno di Dio, scambiando il silenzio con l’assenza. Dobbiamo realizzare le condizioni affinché il sofferente compia l’esperienza della Redenzione, comprendendo la sua fatica, accompagnandolo anche con il silenzio, vivendo con lui il dramma della malattia ed alcune volte della ribellione, suggerendo che Dio, pur non eliminando il dolore, non ci abbandona, ma ci elargisce il coraggio per accettarla e superarla. Il mistero della Redenzione, non esclude l’esperienza drammatica del dolore umano, ma pone le condizioni perché possa compiersi il miracolo della salvezza.

Padre David Maria Turoldo, pochi giorni prima dalla morte, confessò: «Io ho sempre paura di offendere Dio quando prego; ho sempre paura, perché pregare Dio per guarirmi vuol dire: possibile che sia un Dio che si diverta a vedermi malato…, che non sappia che sono malato? Che concetto basso abbiamo di Dio e quanta poca fede in lui. Cristo dice: “Il Padre vostro sa di che cosa avete bisogno e vi ama”. San Paolo dalle carceri aggiunge: “Il Signore mi è stato vicino e mi ha dato la forza”» (Diario dell’anima, San Paolo 2003, 244).

Don Gian Maria Comolli