MORTE. UNA RIFLESSIONE DIFFICILE MA INDISPENSABILE PER VIVERE BENE. La morte dell’altro (4)

By 20 Novembre 2021Pillole di saggezza

Dopo aver esaminato nelle scorse settimane l’ interpretazione della morte nella società contemporanea e il nostro rapporto con questo evento, oggi  ampliamo l’argomento osservando il malato grave o terminale e chiedendoci se possediamo la capacità di accompagnarlo nell’ultimo tratto della vita, poiché armonizzarsi con un famigliare malato o gravemente disabile nel periodo terminale della vita, affinché “muoia con dignità”, è un atto d’autentico e reale amore! Questa visione si scontra con quella dei “tifosi” del suicidio assistito e dell’eutanasia, insinuando nei famigliari il dubbio che procurare la morte del loro caro sia una modalità eccellente per mostrargli affetto. Cioè “un bene” compiuto nei suoi confronti, scordandosi che la “pietà” si manifesta non nel sopprimere ma nell’accogliere. Per questo, a volte, implorano con insistenza i medici affinché “il loro caro non soffra più”. Ma, secondo voi, ad esempio, chi ha dimostrato l’autentico amore a Eluana Englaro: le Suore Misericordine di Lecco che per quindici anni non le fecero mancare cure, acqua, cibo e soprattutto affetto, tenerezza e dolcezza o il padre che la trasferì in una clinica di Udine, dove morì sola e disidratata?

Ogni malato è “inguaribile” ma non “incurabile”

Il malato terminale o il disabile grave è “inguaribile”; cosa significa? Vuol dire che è affetto da una patologia cronico-degenerativa che nessuna terapia è in grado arrestare; di conseguenza la sua prognosi di vita è limitata nel tempo. Ma pur inguaribile, non è un “incurabile”, essendo la cura l’insieme dei provvedimenti di ordine medico, psicologico, assistenziale, affettivo e relazionale che conservano la situazione psicofisica del sofferente nella condizione migliore fino alla morte. In altre parole, possiamo definire questo accompagnamento, il “farsi carico” globalmente del malato come fece il buon samaritano del Vangelo con lo sventurato che soccorse.

Che cosa attende ogni malato da colui che gli è accanto?

I significati

A fianco dell’ “essere curato” è presente nel sofferente l’esigenza di “essere preso in cura” da persone che lo accolgano, lo accompagnano e lo amano. Con la presenza accanto al malato, i famigliari, gli amici e i conoscenti, non rispondono ad una esigenza medica o infermieristica cui sono deputate altre figure, ma a un bisogno spirituale ed esistenziale a cui spesso si presta scarsa attenzione. E’ “la ricerca dei significati”!

La medicina, oggi, conosce quasi tutto sul “come”: come si nasce, come si vive, come si muore…; ma questa onniscienza sul “come” ha fatto scordare il “perché”. Di fronte alla malattia e alla disabilità, l’interrogativo più esigente riguarda il “perché” di quanto è accaduto. Il tentativo di riposta, impone come premessa, un rapporto interpersonale fondato “sull’autentica solidarietà” che consenta una graduale “riappropriazione” dell’evento morboso. Solo così, la malattia o l’invalidità, si trasformano in “eventi esistenziali”, cessando di essere “qualcosa che si ha” ma divenendo “qualcosa che si è”. La sofferenza è sempre una crisi che può assumere un doppio senso: quello di opportunità e quello di pericolo. Da come è vissuta diviene una esperienza positiva o negativa; cioè favorisce un processo di maturazione o, viceversa, può condurre alla disperazione. Il contributo nella “ricerca di senso” impegna chi accosta il malato a camminare insieme verso il primo obiettivo.

La compassione

Cos’è la compassione? Quando si è compassionevoli?

Il vocabolo “compassione” deriva dalla parola latina “compassio” (in inglese “to care”) ed esprime il comportamento sollecito e premuroso nei confronti del dolore altrui. Potremmo tradurre il termine anche in “soffrire con”, infatti, la compassione, non indica la presenza a fianco del malato per offrire consigli, poiché rischiamo che mentre riflettiamo sulla risposta da proporre ci estraniamo dalla sua afflizione, essendo arduo assistere un sofferente. Non è neppure l’attitudine a intuire e comprendere il vissuto del bisognoso d’aiuto penetrando nel suo mondo simbolico per decifrarne i messaggi.

La compassione “è la capacità di sentire e soffrire con la persona ammalata, di sperimentare qualcosa della sua malattia, le sue paure, ansietà, tentazioni, i suoi assalti sull’intera persona, la perdita di libertà e di dignità e la sua assoluta vulnerabilità e le alienazioni che ogni malattia comporta” (E. D. Pellegrino, Ogni malato è mio fratello, in Dolentium hominum 7, pp. 60-61). Di conseguenza, la compassione, è la disponibilità a sostenere il prossimo anche sacrificandosi per lui, come ammoniva teologo e scrittore olandese Henri Nouwen: “Nessuno può aiutare qualcun altro senza entrare con la sua persona nelle situazioni dolorose; senza assumere il rischio di soffrire, ferirsi o anche essere distrutto nell’operazione” (The wounded healer, Ny Doubleday, pg. 72). Questo atteggiamento, stravolge l’abituale rapporto che solitamente abbiamo con i sofferenti, poiché richiede il trasferimento dell’ interesse dalla patologia  alla persona. Ciò avviene mediante una presenza  perspicace  e  articolata divenendo così presenze consolatorie. Osserviamo il rapporto di amicizia tra due persone. L’autentico amico è colui che afferma: “Anche se io non so cosa fare, tu puoi essere sicuro di una cosa: io sono con te. Ogni volta che tu avrai bisogno di qualcuno, non importa in quale momento o in quale luogo, tu puoi contare su di me”. Ma per raggiungere questo elevato obiettivo dobbiamo  ascoltare, comunicare che vogliamo ascoltare, conoscere una storia cioè una persona. E, “ascoltare”, significa “prendere sul serio l’altro”, e di conseguenza, porci accanto a lui con “deferente rispetto”.

La speranza

Il malato implora speranza!

E, qui, è enormemente avvantaggiato colui che si professa cristiano, poiché la “speranza cristiana” è “Ia certezza” che l’esistenza oltrepassa il contingente essendo in tensione verso I’Assoluto. Inoltre, libera I’uomo dall’angoscia e dalle disperazioni conseguenti alle delusioni dell’esistenza, dalla sofferenza, dall’incapacità di cogliere la realtà nella sua bellezza e nella sua ricchezza. “La cristianità quando parla di ‘speranza’ parla del futuro del mondo, dell’umanità, della natura nella cui storia è coinvolta” (J. Moltamann, La Chiesa nella forza dello Spirito, Queriniana, pg. 184). Allora, l’oggetto della speranza cristiana, è “I’escatologia” che si fonda sulla Paternità di Dio (cfr.: Ef. 2; 1 Cor. 1,9).

La “speranza cristiana” si concretizza anche “nelle relazioni” poiché ogni battezzato è “membro” del “Corpo di Cristo” che è la Chiesa. Perciò, in virtù di questi rapporti, evidenzia una linea di tendenza in cui i rapporti dialogico-relazionali possono conseguirla o disattenderla. Le relazioni, in particolare quelle con il sofferente, non inquadrate in questo orizzonte di speranza, entrano in contraddizione, si affievoliscono e generano conflitti come spesso avviene all’uomo post-moderno che, il più delle volte, è proteso alla ricerca dell’avere e alla rincorsa del successo. L’Occidente ateizzato, reputando oggetti e privilegi fonti di sicurezza, ha circoscritto “la riflessione sull’essere”, e di conseguenza “sulla speranza”, a circostanze sporadiche o a gruppi elitari. Heinrich Schlier, esegeta contemporaneo, così descrive gli effetti dell’odierna assenza di fiducia e di ottimismo. “Dove la vita umana non è protesa verso Dio, dove non è impegnata al Suo appello, ci si sforza invano di superare la spossatezza, la vacuità, la tristezza che nascono da tale mancanza di speranza. La persona senza speranza soffre e lo manifesta attraverso dei sintomi, quali la loquacità in discorsi vuoti, l’esigere costantemente una discussione, la curiosità insaziabile e sbrigativa, la dispersione nella molteplicità e nell’arruffo, l’inquietudine  interiore  ed  esteriore,  le  varie forme  di  nevrosi, l’ instabilità decisionale, il rincorrere nuove sensazioni” (C. M. Martini, Le virtù, In dialogo, pg. 42).

La sollecitudine di coloro che sono accanto ai malati, e possiedono il dono della fede, è quella di divenire messaggeri della speranza cristiana tra i “dis-sperati”, rammentando che l’etimologia “dis-sperato” non è sinonimo di assenza di speranza ma di un alterato significato ad essa attribuito. Mentre, la “speranza cristiana” è “la tensione”, ricca di attesa nel futuro; “la fiducia” che il futuro si realizzerà; “la pazienza” e “la perseveranza” nell’attenderlo.

Terminando

Chi è riconciliato con la propria morte sa sostenere il sofferente con una presenza rassicurante: ascoltandolo e consentendogli di esprimere le emozioni e l’ angoscia per l’avvicinarsi della morte e infine consolarlo, evitando però parole falsamente rassicuranti. Molti che hanno utilizzato questa “metodologia di prossimità” testimoniano che quando si attua questa tipologia di accompagnamento, nessuno chiede più di morire; anzi nasce un maggiore attaccamento alla vita.

Ebbene, accompagnare l’ammalato nell’ultimo tratto dell’esistenza, alleviandogli il dolore, comunicandogli che si desidera la sua presenza fino all’ultimo, pronti a lottare insieme è un atto raffinatamente cristiano e umano.  Mentre, denunciò il cardinale Carlo Maria Martini: “‘Mostruosa’ appare la figura di un amore che uccide, di una compassione che cancella colui del quale non si può sopportare il dolore, di una filantropia che non sa se intenda liberare l’altro da una vita divenuta soltanto di peso oppure se stessi da una presenza divenuta soltanto ingombrante” (Discorso alla città di Milano per sant’Ambrogio, 6 dicembre 1989).

Don Gian Maria Comolli

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