LA “SOFFERENZA” DELLA PASSIONE E DELLA MORTE IN CROCE DEL SIGNORE GESU’

Dalla sera del Giovedì Santo osserviamo un’ incalzare di torture fisiche e psicologiche descritte con accurati particolari, soprattutto da Luca, che essendo medico è attendibile anche scientificamente.

Esamineremo i principali passaggi osservando la “Sacra Sindone” il telo sepolcrale che “che ha avvolto la salma di un uomo crocefisso in tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù, il quale, crocefisso verso mezzogiorno, spirò verso le tre del pomeriggio. Venuta la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato solenne di Pasqua, Giuseppe d’Arimatea, un ricco e autorevole membro del Sinedrio, chiese coraggiosamente a Ponzio Pilato di poter seppellire Gesù nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia a poca distanza dal Golgota. Ottenuto il permesso, comprò un lenzuolo e, deposto il corpo di Gesù dalla croce, lo avvolse con quel lenzuolo e lo mise in quella tomba (cfr.: Mc. 15,42-46). Così riferisce il Vangelo di san Marco, e con lui concordano gli altri Evangelisti. Da quel momento, Gesù rimase nel sepolcro fino all’alba del giorno dopo il sabato, e la Sindone di Torino ci offre l’immagine di com’era il suo corpo disteso nella tomba durante quel tempo, che fu breve cronologicamente (circa un giorno e mezzo), ma fu immenso, infinito nel suo valore e nel suo significato” (Benedetto XVI, 2 maggio 2010).

 

NELL’ORTO DEGLI ULIVI (cfr.: Lc. 22,39-46)

Due gli episodi accaduti in quel luogo: l’invito di Gesù ai discepoli a pregare ed essergli vicino in quella tappa di profonda angoscia. Ai discepoli l’invito: “Pregate per non entrare in tentazione” (Lc. 22,40), cioè per superare la prova. Poi Gesù si allontanò per supplicare Dio. Un’orazione intensa per implorare dal Padre la fedeltà alla sua volontà e per superare l’afflizione che gli procurava notevoli attacchi di panico evidenziati dalla sudorazione “tinta di sangue” che  scientificamente assume l’appellativo di “hematidrosis”, quando a seguito di una consistente tensione emotiva i capillari più piccoli possono rompersi e il sudore assume il colore del sangue. Anche questo particolare manifesta la sofferenza e la debolezza dell’ “uomo” Gesù che comunque fu vittorioso poiché immediatamente reagì: “Tuttavia non sia fatta la mia ma la tua volontà” (Lc. 22,42b).

L’ARRESTO E IL RINNEGAMENTO DI PIETRO (cfr.: Lc. 22,47-62)

L’arresto fu “guidato” da uno dei “dodici”, Giuda, che raggiunse il Maestro accompagnato da una minuta folla e immediatamente accostò il Signore Gesù per baciarlo. Un gesto che esprime affetto e venerazione si trasformò in “strumento di tradimento”, ancora più drammatico essendo seguito dall’abbandono degli apostoli e dal rinnegamento di Pietro. Da notare che Matteo evidenzia che anche in quell’occasione Gesù apostrofò Giuda con l’appellativo “Amico” (Mt. 26,50) che potremmo interpretare come “un velato rimprovero e un invito alla riflessione” (Cfr.: R. Fabris, Matteo, Borla, pg. 535). Altro importante particolare fu il rifiuto della violenza che seguì il taglio  dell’orecchio a un servo del sommo sacerdote (cfr.: Lc. 22,50); questo dimostrò nuovamente che l’autentica forza del Messia fu “la debolezza dell’amore”. E poi troviamo Pietro che fu oggetto di domande poste da alcune persone: “Anche tu sei uno di loro” (Lc. 22,56). A quel punto, non avendo scampo, non solo negò di conoscere Gesù ma anche di non comprendere di chi stessero parlando: “O uomo, non so quello che tu dici” (Lc. 22,60a). Ma, “ma mentre ancora parlava, un gallo canto” (Lc. 22,60b) e Pietro si ricordò che il rinnegamento fu annunciato dal Maestro poche ore prima. E “uscito pianse amaramente” (Lc. 22,62).

GLI OLTRAGGI DEL SINEDRIO E DI ERODE (cfr.: Lc. 23,8-12;63-71)

Il “processo giudaico”, in due fasi (una seduta notturna e una seduta mattutina), che Cristo subì nel Sinedrio dinnanzi ai settanta membri che lo costituivano, pose il Signore Gesù di fronte alle menzogne più assurde, alla viltà dei potenti e alla cafonaggine dei soldati poichè fu reputato, come afferma B. Maggioni: “un re da burla” (B. Maggioni, Il racconto di Luca,  Cittadella, pg. 386).

Richiamiamo alla memoria: lo schiaffo di un servo di Caifa, i soldati che lo flagellarono con le “trentanove flagellazioni ordinarie”, che lo spogliarono due volte, che posero sul suo capo una corona di spine… Si avverò la già citata profezia di Isaia: “Ho presentato il mio dorso alle percosse, e le mie guance a chi mi strappava la barba; non ho sottratto il mio volto agli schiaffi e agli insulti” (Is. 50,6). Ma questo carico di sofferenze non trattenne il Cristo dall’affermare “quello che egli è”, anche se quelle parole lo condanneranno definitivamente. “Allora tutti esclamarono: ‘Tu dunque sei il Figlio di Dio?’. Ed egli disse loro: ‘Lo dite voi stessi: io lo sono’ ” (Lc. 22,70). E la condanna a morte scattò automaticamente: “Che bisogno abbiamo ancora di testimoni?” (Lc. 22,71).

AL COSPETTO DI PILATO (cfr.: Lc. 23,1-7; 13-25)

Due furono i colloqui con il governatore romano Ponzio Pilato; nelle prime ore del mattino di venerdì e nella tarda mattinata.

Il primo riguardò la sua “identità” e il concetto di “libertà”. Per quanto riguarda la sua “identità” affermò: “Tu lo dici; io sono re” (Gv. 18,37a). Ma egli non fu un sovrano potente non possedendo territorio, esercito e neppure un popolo che lo difendeva pur avendolo soccorso con la Sua parola e con le Sue opere. Morendo sulla croce tra lo scherno dei presenti, unicamente un criminale riconoscerà la sua regalità. Chiarì, inoltre, il paradosso del suo Regno: “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv. 18,38); cioè non è fondato su un potere politico, giuridico, economico o militare ma sull’amore di Dio nei confronti dell’uomo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv. 3,16). Per questo “il trono” di Cristo è la croce, luogo della massima manifestazione della “potenza dell’amore”.

Spiegò, poi, il significato del vocabolo “verità” affermando: “Per questo io sono nato e per questo io sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv. 18,37a). Aggiungendo: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv. 18,37b).

Nel secondo colloquio con Pilato un nuovo interrogatorio e la scelta tra Gesù e Barabba, quando, “questo re”, fu totalmente rifiutato dal suo popolo e infine la flagellazione. Il procuratore romano, cui spettava la condanna capitale nel primo incontro tentò di scaricarsi la responsabilità, addossandola a Erode: “Non trovo nessuna colpa in quest’uomo” (Lc. 23,4). Nel secondo ritrovo, pur riconoscendolo nuovamente innocente: “non ho trovato nulla in lui che meriti la morte” (Lc. 23,22), per timore della folla tumultuosa “lo fece frustare a sangue e lo consegnò ai soldati” (Mc. 15,15) perché lo crocifissero. Gesù, dunque, fu condannato alla esecuzione più spietata e ignominiosa del mondo antico! E per comprendere più profondamente la sofferenza del Nazzareno non possiamo scordare che la flagellazione comportò 39 colpi sulle spalle e sulle gambe del condannato con una frusta formata da strisce di cuoio alle cui punte furono annodate delle palline di piombo della dimensione delle nocciole. All’inizio le strisce di cuoio lacerarono la pelle, poi, inesorabilmente penetrarono nei tessuti più profondi procurando vaste contusioni.

SULLA STRADA DEL CALVARIO (cfr.: Lc. 26,23-32)

Indebolito, arrancante e sfinito, Cristo iniziò a percorrere la strada del Calvario. Non è molto lunga ma portava sulle spalle il piano orizzontale della croce che pesava dai 30 ai 50 chili, mentre il piano verticale generalmente era già fissato a terra nel luogo del supplizio. E inciampò e cadde ben tre volte. Sanguinante e sudato faticava sempre più a rialzarsi. Allora, il centurione, ordinò a un passante, Simone di Cirene, di aiutare Gesù a reggere la croce.

LA CROCIFISSIONE (cfr.: Lc. 23,33-34)

Sul Calvario, come atto di estrema umiliazione e disprezzo, lo spogliarono delle vesti e lo inchiodarono sulla croce, e ancora una volta, il dolore fisico fu incalcolabile. Prima l’inchiodatura delle mani al palo orizzontale, poi fu issato sul piano verticale dove era posto uno spuntone sul quale il condannato appoggiava i piedi. Quindi seguì l’inchiodatura dei piedi fissati con un chiodo unico. La croce fu infine innalzata e ciò gli provocò altri patimenti dovuti all’asfissia e a lancinanti crampi. E il dolore si intensificò con il trascorrere del tempo poichè il peso del corpo lo fece lentamente scivolare e il chiodo veniva a contatto con i nervi dei piedi. Anche la respirazione divenne sempre più ansimante. Così per tre lunghissime ore! Ben visibile fu posta anche la motivazione della condanna. L’esecuzione che avveniva fuori dalla città era un ammonimento per tutti. Gli fu offerto vino mescolato con mirra (cfr.: Mt. 15,23) ma Egli non ne volle per morire “in piena lucidità”. Accanto a Lui, spesso accusato di essere “amico dei pubblicani e dei peccatori” (Mt. 11,19), “crocifissero due malfattori” (Lc. 23,33).

E, il Signore Gesù, morì.

Il “valore universale” della sua morte fu espressa dal centurione romano spalancandosi alla fede: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc. 15,39).

Don Gian Maria Comolli