Usa. Creato embrione pecora-uomo per trapianti di organi

Per la prima volta è stato creato in laboratorio un embrione ibrido uomo-pecora, in cui una cellula su 10.000 è umana. Un anno fa circa era stato realizzato un embrione di uomo e maiale.

Ricorda lo xenotrapianto, ma è assai più simile alla chimera. La notizia diffusa dalla Stanford University, e resa nota dal quotidiano inglese «Guardian», sa di già sentito ma ha elementi di novità sui quali è bene fare qualche prima considerazione evitando facili entusiasmi (già dilaganti nelle prime reazioni italiane) e censure preventive.
I fatti: un’équipe americana ha sviluppato embrioni di pecora contenenti cellule umane, in un rapporto di una a 10mila, allo scopo di far crescere organi compatibili con l’uomo all’interno di animali. L’obiettivo è ottenere una “fabbrica” potenzialmente illimitata di pezzi di ricambio personalizzati e dunque senza pericolo di rigetto. Si tratta di una tecnica che ricorda il principio degli xenotrapianti, ovvero l’uso per l’uomo di organi animali (in particolare da suini), ma se ne differenzia per l’incrocio tra cellule e dunque tra patrimoni genetici dell’uomo e dell’animale (la pecora, nel caso di Stanford). La tecnica più vicina a questo nuovo esperimento, che ha dato luogo a embrioni misti uomo-ovino fatti sviluppare fino al 28esimo giorno, un’estensione di tempo che dovrebbe essere sufficiente a verificare la formazione di organi destinati al trapianto sull’uomo, anche perché sinora pare che non vi sia traccia di ciò che si immaginava di trovare.
L’esperimento del gruppo di ricerca guidato dal giapponese Hiro Nakauchi che da anni conduce studi sulla medicina rigenerativa e le cellule staminali, punta a ottenere nell’animali un pancreas efficiente che garantisca al paziente diabetico dal quale provengono le cellule per la creazione dell’ibrido la soluzione della sua patologia. «Abbiamo già creato un pancreas di topo nei ratti – ha dichiarato Nakauchi al quotidiano britannico – e poi lo abbiamo trapiantato in un esemplare di topo diabetico curandolo quasi completamente».
La strada intrapresa a Stanford ricorda gli esperimenti condotti al King’s College di Londra nel 2007 dall’équipe guidata da Stephen Minger, che creò chimere con patrimonio genetico bovino e umano grazie all’autorizzazione concessa dall’autorità inglese per gli embrioni Hfea. Di quel tentativo, assai enfatizzato mediaticamente proprio come nuova frontiera per ottenere organi da trapiantare negli umani, si sono perse le tracce per il semplice motivo che ci si trovò di fronte a un vicolo cieco mentre altre e assai più promettenti strade si andavano aprendo (è il caso delle cellule staminali adulte riprogrammate scoperte da un altro giapponese, Shinya Yamanaka, che gli valsero il Nobel per la medicina nel 2012).
L’esperimento in cui è stato creato un embrione ibrido pecora-uomo oltre a sollevare dubbi etici non ha applicazioni a breve termine: è il parere espresso dal direttore scientifico dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma Bruno Dallapiccola.
“La mia considerazione, al di là dei problemi etici che derivano dall’aver creato un oggetto che è così contro natura, è che non vedo l’utilità di questi esperimenti – sottolinea il genetista -. Se l’idea è far funzionare questo metodo in funzione dei trapianti, se si ha una cellula umana insieme a una animale non si risolve il problema del rigetto. I ricercatori sostengono che attraverso le tecniche di ‘gene editing’, tra cui il ‘famoso’ Crispr, riusciranno a rimuovere anche questo problema togliendo i geni, ma io ho forti perplessità”.
La tecnica Crispr, ricorda Dallapiccola, è ancora nelle prime fasi di sviluppo, e non dà garanzie. “Ne parlano tutti, e nonostante i miglioramenti continui, alcuni anche grazie alla ricerca italiana, ancora ci sono molti problemi da risolvere, il primo dei quali è che la tecnica corregge il Dna da una parte, ma può produrre errori da un’altra. È tutto molto lontano dal trasferimento al paziente”.
Quel che intanto pare certo è che l’ibridazione di ovini con patrimonio genetico umano dà origine a embrioni di una nuova specie inesistente in natura e dalle caratteristiche ignote. Lo stesso fatto che si sia limitato lo sviluppo a 28 giorni, immaginando un’estensione a 70 per ottenere qualche risultato concreto, è il segnale che non si sa cosa potrebbe succedere dopo questo limite di tempo.
E come sempre nella ricerca scientifica, l’unico metodo noto è far nascere la creatura generata interspecie, qualunque cosa sia, con conseguenze del tutto imprevedibili se questa creatura da laboratorio dovesse poi trasmettere il suo Dna alla progenie. Una prospettiva che certamente l’équipe americana non contempla, ma che una volta aperta la strada difficilmente potrà essere scongiurata. La domanda di organi è elevatissima e drammatica (il «Guardian» parla di 460 inglesi morti nel 2016 in attesa di trapianto) ma non ogni strada si giustifica per questo.

Francesco Ognibene
Avvenire.it, 19 febbraio 2018