VANTHUANOBSERVATORIO.ORG – È mancata una strategia per il sistema sanitario nazionale come bene comune

By 13 Aprile 2020Coronavirus, Salute
 Intervista al Prof. Vladimir Kosic
Stiamo vivendo una delle crisi sistemiche più dure che ha dovuto affrontare l’Europa almeno dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. Infatti alla pandemia causata dal COVID-19 si lega in stretto nesso una crisi economica che si preannuncia epocale e una evidente manifestazione di inadeguatezza dei modelli sociali e politici odierni, il tutto nel conclamato fallimento dell’Unione Europea di Maastricht, Schengen e Lisbona.

Il nostro Osservatorio ne sta scrivendo a partire dal documento dell’arcivescovo Giampaolo Crepaldi. È ora operativo un vero e proprio Tavolo di Lavoro, guidato dall’Osservatorio, per iniziare a pensare cattolicamente la crisi e la ricostruzione che si dovrà attivare dopo il coronavirus.

La crisi sanitaria che il contagio ha innescato in Italia (ora anche in Spagna, Francia, Germania, Regno Unito e in altri Paesi europei) pone gravi interrogativi bioetici, di deontologia medica e giuridici. Tutto questo costituisce poi un enorme problema politico nella misura in cui è, in ultima istanza, l’autorità politica a decidere l’eccezione nell’azione, anche sanitaria, in situazione d’emergenza.

La crisi sanitaria e socio-economica pone come non più rimandabile una riflessione sullo stato della civiltà occidentale e sulla possibilità di una rinascita cristiana dell’Europa.

Ne abbiamo parlato con il professor Vladimir Kosic, triestino di origini istriane, dal 2008 al 2011 Assessore alla Sanità della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, prima dirigente di diverse associazioni delle persone disabili del Friuli-Venezia Giulia. Dal 1996 al 2000 coordinatore del Centro di riabilitazione regionale per mielolesi “Progetto Spilimbergo”, promotore e primo Presidente (dal 2000 al 2008) della Consulta per le Associazioni dei Disabili del Friuli Venezia Giulia (organo consultivo della Regione Friuli Venezia Giulia). Dal settembre 2010 al novembre 2011 ha ricoperto l’incarico di Presidente del Committee 2 Social Policy and Public Health dell’ARE (Assemblea Regioni d’Europa).

 

Carissimo professore, in Italia solo chi è stato Ministro della Salute o Assessore regionale alla Sanità può ragionevolmente dire di conoscere per esperienza il complesso meccanismo della Sanità pubblica, le sue logiche e le sue strutture sin nel loro vertice. Ci aiuta allora a capire cosa sta succedendo? E come sia spiegabile ancora ora in aprile la mancanza di posti letto in rianimazione, l’insufficienza dei ventilatori polmonari, la penuria di presidi come mascherine, camici, disinfettanti, la necessità addirittura di far intervenire in corsia neo-laureati e sanitari già pensionati o stranieri quando già in gennaio il governo aveva proclamato lo stato di emergenza sanitaria?

Non so fino a che punto il principio di rappresentanza porti in dote anche il principio di competenza per cui proverò a rispondere non per le cariche ricoperte in passato ma come osservatore del presente, premettendo che non c’è alcuna intenzione di “sparare sulla croce rossa”. Penso che il disastro in cui versa la nostra sanità avvenga soprattutto per mancanza di visione, di strategia alimentata dall’attitudine moderna a vivere alla giornata, ad affrontare problemi seri con gli slogan, o con i tweet, con piccoli o grandi interventi scollegati tra loro, e non in una riforma complessiva ed organica. Le cause sono da ricercarsi nel recente passato ed hanno a che fare soprattutto con la gestione del Sistema Sanitario nazionale (SSN). Non c’è stata alcuna strategia del “male” ma solo un’assenza di strategia, o meglio di una mancata politica a difesa del SSN come bene comune. Citerei due esempi degli interventi che hanno portato al disastro.

• Il blocco del turn over con l’idea che i risparmi potessero avvenire grazie alla riduzione del numero degli operatori sanitari. Come se in sanità gli sprechi ed i costi eccessivi venissero da lì. Per far funzionare i servizi, per garantire i LEA, evadendo contributi e tutele e con retribuzioni al ribasso, il personale è diventato precario. Medici compresi. Effetto: reparti con meno medici, personale demotivato, sfruttamento del lavoro, allungamento dei tempi di attesa per i pazienti, aumento della anzianità media dei dipendenti. Le centinaia di assunzioni di medici e infermieri neolaureati, l’utilizzo degli specializzandi, gli SOS che richiedono personale sanitario sono sicuramente dovuti alla pandemia del COVID- 19 ma testimoniano anche l’insufficienza del personale in servizio.

Il numero totale dei medici per abitante in Italia rimane superiore alla media dell’UE (4,0 rispetto al 3,6 per 1.000 abitanti nel 2017), ma il numero dei medici che esercitano negli ospedali pubblici e in qualità di medici di famiglia è in calo. Non solo, l’Italia ha meno infermieri di quasi tutti i Paesi dell’Europa occidentale (ad eccezione della Spagna) e il loro numero è notevolmente inferiore alla media dell’UE (5,8 infermieri per 1.000 abitanti contro gli 8,5 dell’Ue). In generale, quindi, i tagli alla Sanità hanno portato un calo del numero degli addetti sanitari, tra medici e infermieri, soprattutto nel pubblico. Secondo i calcoli della Ragioneria dello Stato, tra il 2009 e il 2017 la sanità pubblica nazionale ha perso oltre 8.000 medici e più di 13 mila infermieri.

• Pensare che 3.6 posti letto per mille abitanti potessero bastare per una popolazione sempre più anziana, sola e povera è stato un errore. Un numero inventato, visto che in nessun altro Paese civile si prevedono così pochi posti letto. Nel 2017, secondo l’Annuario statistico, il SSN in Italia disponeva di 1.000 istituti di cura, 51,80% pubblici e 48,20% privati accreditati, per un totale di 191 mila posti letto di degenza ordinaria. Il che voleva dire 3,6 posti letto ogni 1.000 abitanti. La media europea, secondo i dati Eurostat e Ocse, era invece di 5 ogni 1.000 abitanti. Ma cosa succedeva prima dei tagli? «Nel 2007 – si legge nell’annuario di quell’anno – l’assistenza ospedaliera si è avvalsa di 1.197 istituti di cura, 55% pubblici e 45% privati accreditati. A livello nazionale sono disponibili 4,3 posti letto ogni 1.000 abitanti». Nel 1998 c’erano 1381 istituti, 61,3% pubblici e 38,7% privati accreditati: 5,8 posti letto per 1.000 abitanti. Al di là dei tagli, quindi, negli ultimi 20 anni, avevamo già deciso di ridurre il numero di ospedali e posti letto, soprattutto nel pubblico, aumentando la quota del privato convenzionato che, però, non fornisce gli stessi servizi (come i posti di terapia intensiva).

Per ciò che riguarda le criticità nell’approvvigionamento dei dispositivi di protezione individuale per gli operatori e di tecnologie per ampliare il numero di posti letto delle terapie intensive, va ribadito che il principio di rappresentanza non garantisce anche quello della competenza e che la mancanza di un’organizzazione efficace ed efficiente continua ad aggiungere grossi problemi alla drammatica situazione causata dalla pandemia. Ad esempio, non è scattato il piano del Ministero per la pandemia redatto nel 2016.

Come già detto, l’attitudine moderna a vivere alla giornata, ad affrontare problemi seri con conferenze stampa improvvisate, con i tweet e con piccoli o grandi interventi scollegati tra loro, ha aumentato gli effetti negativi in un momento di straordinaria emergenza che richiedeva interventi programmati e ben definiti. Lo stesso bollettino quotidiano che si esprime in una serie di cifre in costante aumento andrebbe contestualizzato al fine di fornire interpretazioni sensate.

Perché  a partire da gennaio non si è pensato ad allestire “ospedali da campo” ovvero strutture provvisorie atte a fornire supporto ventilatorio agli eventuali pazienti con gravi forme di polmonite virale che ragionevolmente il governo si poteva aspettare come rivela il proclamato stato di emergenza sanitaria?

Per diverse ragioni. Oltre alla deleteria attitudine moderna che non è in grado di garantire un minimo di programmazione, dal 2001 ad oggi di epidemie e di pandemie la Covid-19 è la quinta in ordine di tempo. Nel 2001 c’è stata la Bse, meglio conosciuta come morbo della mucca pazza. Nel 2002 ci fu la Sars, nel 2005 l’aviaria e nel 2009 la suina. Ogni volta i tg di tutto il mondo furono monopolizzati con previsioni nefaste. Per la Bse i tecnici allora predissero migliaia di morti perché l’agente infettivo, il prione, poteva colpire l’uomo con la cosiddetta variante della Creutzfeldt Jakob, malattia degenerativa neurologica. Alla fine il bilancio fu di 163 morti. Ora la bistecca con l’osso non è più un sogno dei carnivori e della Bse non c’è più traccia. Per la Sars In Italia la paura fu ingigantita dalla morte di Carlo Urbani, il virologo che aveva scoperto il virus e ne era rimasto contagiato pochi mesi prima. Alla fine la Sars ha colpito soltanto il Sudest asiatico e il Canada, registrando 8 mila casi di contagio e 880 morti. Per l’aviaria l’Oms previde “almeno un milione di morti”. In realtà i decessi si fermarono a 369 a dispetto degli esperti che l’avevano paragonata alla Spagnola del 1918, o all’Asiatica del ’57-’58. L’influenza suina, (Il Virus H1N1), per l’Oms avrebbe dovuto scatenare la prima pandemia del ventunesimo secolo. Scoppiò nel 2009 con i primi focolai in Messico e causò circa 18mila morti accertate contagiando 482mila persone. Ma non c’è stato nulla di drammatico se non i 229 milioni di dosi di vaccini negli Usa mandati al macero. Del resto, il numero delle vittime risultò risibile rispetto a quelle che miete l’influenza invernale, che ogni anno uccide tra 250mila e 500 mila persone nel mondo. Il virus H1N1 ora è stato inglobato nel normale vaccino antinfluenzale e non fa più paura a nessuno. Credo che, malgrado le paurose immagini trasmesse in tv delle città e delle strade cinesi disabitate, della chiusura dei servizi e delle attività principali, a quanto accadeva in Cina non sia stata data l’attenzione necessaria anche perché in passato si era gridato “al lupo, al lupo!” con troppa enfasi.

Quanto poi ai ventilatori polmonari ma anche ai più banali camici, mascherine, disinfettanti ci siamo accorti che l’Italia non è autosufficiente in quanto la più parte di questi strumenti è di provenienza estera (in molti casi extraeuropea). Si dice che ciò dipenda dalla logica degli appalti al massimo ribasso che hanno messo fuori mercato la produzione nazionale. Ci aiuta a capire?

I dispositivi di protezione individuale (non la strumentazione della terapia intensiva) sono prodotti in serie alquanto facili da realizzare per cui i Paesi dove vengono fabbricati (Cina, Vietnam) richiedono manodopera a basso costo che meglio corrisponde alla logica degli appalti al massimo ribasso sempre più praticati nell’acquisto di beni e servizi.

A suo giudizio è ragionevole che un Paese come l’Italia rinunci alla capacità d’essere autosufficiente nel campo dei presidi sanitari?

In un mondo globalizzato, come quello di questi ultimi decenni (vedremo in seguito se la crisi pandemica farà o meno “saltare” la globalizzazione), credo che l’autarchia sia impossibile in tutti i sistemi, non solo in quello sanitario. Ciò che bisogna garantire è la disponibilità dei presidi all’interno di una programmazione che preveda anche l’evento straordinario come possibile. Se le mascherine sono ancora introvabili la ragione non è che si tratta di prodotti cinesi o vietnamiti bensì che la gestione del problema è stata affrontata vivendo alla giornata e in maniera incompetente.

In tutta questa crisi l’Unione Europea si è rivelata assente se non matrigna. L’arcivescovo Crepaldi ha parlato di morte dell’UE “per coronavirus”. Da cosa dipende, secondo lei, un così manifesto fallimento del progetto europeo?

Nel documento dell’arcivescovo Crepaldi viene citata l’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, scritta nel 2009, al tempo di un’altra crisi, in cui si affermava che “La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità” (n. 21). Credo che l’UE non abbia minimamente tenuto in considerazione la riflessione di Benedetto XVI. Al contrario, i fatti dimostrano che l’UE abbia sempre continuato imperturbabile il suo cammino verso il fallimento. L’indisponibilità della Germania e dei Paesi scandinavi di prestare aiuto all’Italia in seguito alla catastrofe economica e sociale causata dalla pandemia dimostra che l’UE sceglierà sempre il portafoglio senza mai riconoscere alcunché abbia a che fare con le ragioni del cuore.

Innanzi ai reparti di rianimazione ai limiti del collasso si è iniziata a far strada una logica subdolamente disumana per cui gli anziani avrebbero minor diritto ad essere curati rispetto a chi è più giovane. La logica sembra razionale in una sorta di calcolo della aspettativa di vita ma ciò facendo si distruggono i principi della uguale dignità ontologica degli uomini e dell’uguale diritto alla vita di ciascun uomo. Anche il solo aver enunciato nel dibattito pubblico una simile logica costituisce una ferita culturale all’intera civiltà morale e giuridica di cui l’Italia è culla. Cosa ha provato sentendo simili discorsi?

Il rischio, oserei dire, la certezza che sembra affacciarsi ormai da almeno due decenni è l’insorgere di un pericoloso darwinismo sociale: che si salvino i più adatti, i più giovani, i più forti e più produttivi. Pericolosa deriva di ogni tragedia collettiva, che parte dal “si salvi chi può” e arriva ad accettare un cinismo di Stato oltre ogni misura di realismo.

La Sanità italiana, però, nel suo complesso, ha tenuto fede alla cultura cristiana che l’ha generata nei secoli mostrando, soprattutto grazie alla deontologia di medici e sanitari, che anche i più fragili meritano la nostra attenzione e che va fatto tutto il possibile per assisterli e curarli perché anche loro sono esseri umani. La sofferenza può essere sostenibile a condizione che sia curata, condivisa e che si riesca a darle un senso.

Anche in Italia, lo ricordava pochi giorni fa il senatore Salvini, è calato il silenzio (in primis governativo) sui cittadini con disabilità. In piena crisi pandemica, con l’Italia ferma e l’impossibilità a muoversi da casa, per molti disabili è ancora più difficile sopravvivere. Di quali interventi pubblici avrebbero bisogno ora i cittadini italiani con disabilità?

Soprattutto di assistenza e di non permettere che le famiglie siano lasciate da sole ad occuparsene, come purtroppo capita nei casi più gravi.

Dal 1964, in seguito ad un incidente sportivo che ha comportato la lesione del midollo spinale, lei sperimenta le difficoltà date dalla tetraplegia ma ha sempre combattuto: la laurea all’Orientale di Napoli con il massimo dei voti, la docenza, l’impegno associativo e politico. Alcuni governi europei e di Stati degli USA hanno adottato linee guida che prevedono di non garantire la ventilazione polmonare ai pazienti colpiti da COVID-19 affetti da handicap. Questa crisi sanitaria sta facendo riemergere logiche che si credevano consegnate alle pagine più buie della storia novecentesca. Come dobbiamo interpretare questo così clamoroso crollo di civiltà? Dopo tanti anni di battaglie per i diritti dei disabili come giudica un Occidente che considera la disabilità con indifferenza se non fastidio o addirittura come ragione per negare le cure salvavita?

56 anni di tetraplegia sono davvero tanti, quasi un Guinnes dei primati di cui avrei fatto volentieri a meno. Negli sguardi di alcuni amici, quando vengono a sapere che sono tetraplegico dall’adolescenza, leggo la paura e credo che sia solo per buona educazione che non ricorrano a gesti scaramantici. Finché la disabilità sarà considerata come una condizione disumana, quasi indegna di essere vissuta, l’esatto opposto di ciò che ha a che fare con la vita, alle persone disabili saranno riconosciuti diritti minori perché meno validi, invalidi. Di disabili, però, ce ne sono sempre di più e penso che rinunciare anche ai loro talenti non porti alcun vantaggio.

La disabilità non è una condizione auspicabile ma dato che dalla vita è compresa come condizione compatibile con la vita stessa, la scelta di negare una possibile esistenza a chi vive la disabilità sia una opzione semplicemente inadeguata. Non possiamo porre condizioni alla vita perché se lo facessimo non potremmo dare alcun senso in prima persona alla nostra stessa vita.

Questa pandemia sta mostrando anche tutta la debolezza culturale e spirituale dell’Occidente nella incapacità di leggere la sofferenza e la morte e di affrontarle dentro un orizzonte di senso. È come se il virus avesse colpito un organismo già malato. Da acuto osservatore della realtà come descriverebbe l’Occidente odierno?

Risponderei citando una riflessione del documento dell’arcivescovo Crepaldi: “Serve un profondo ripensamento delle derive immorali della nostra società, a tutti i livelli. Spesso le disgrazie naturali non sono del tutto naturali, ma hanno alle spalle atteggiamenti moralmente disordinati dell’uomo”

Una simile società, liquida al punto da non essere capace di riconoscere l’identità sin nel suo dato più elementare di maschio/femmina, priva di certezze etiche e di riferimenti religiosi pubblici, come potrà reggere all’impatto della crisi socio-economica che verrà? Cosa le impedirà di consegnarsi al caos?

Nel caos ci siamo già perché oltre ad aver distrutto la famiglia con la teoria del gender, con la liberalizzazione della droga per finalità ricreative è l’individuo personale che sta per essere sgretolato.

Dovendo immaginare la ricostruzione e volendo concludere con una ragionevole speranza, come immagina una futura Italia, una futura Europa rivitalizzata nuovamente dalla linfa della Verità di Cristo?

Ricorrerei ancora una volta ad una riflessione dell’arcivescovo Crepaldi: “Questa emergenza del coronavirus può essere vissuta da tutti “come se Dio non fosse” e in questo caso anche la fase successiva, quando l’emergenza terminerà, applicherà per continuità una simile visione delle cose. In questo modo però si sarà dimenticato il nesso tra salute fisica e salute morale e religiosa che questa dolorosa emergenza ha fatto emergere. Se, al contrario, si sentirà l’esigenza di tornare a riconoscere il posto di Dio nel mondo, allora anche i rapporti tra la politica e la religione cattolica e tra Stato e Chiesa potranno prendere una strada corretta.” Non vedo altre vie di uscita.

Intervista a cura di Samuele Cecotti

Newsletter n.1083 | 2020-04-13

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