EDITORIALE – Stati Vegetativi Persistenti: persone “vive”

By 16 Febbraio 2019Articoli Bioetica 2018

Il recente anniversario dei dieci anni dall’uccisione di Eluana Englaro e il fatto che in Italia troviamo oltre 1.500 malati in “stato vegetativo persistente”, mi sollecitano ad una riflessione su questi malati di cui si parla poco per conoscerli meglio.

 Distinzione tra coma e stato vegetativo persistente.

Per prima cosa serve chiarire due vocaboli sui quali esiste molta confusione e che non sono sinonimi, ma situazioni notevolmente differenti.

Il coma è la perdita di coscienza causata da un danno subito dalla corteccia celebrale. Rende la persona totalmente incapace di relazionarsi con l’ambiente e per vivere, il più delle volte, gli organi vitali del malato, sono supportati da dispositivi medici. Il coma, ha alcuni gradi di profondità, a secondo della sede e della lesione subita: superficiale, medio, profondo e depassè (morte cerebrale). Si evolve con tre modalità: la guarigione, lo stato vegetativo persistente o la morte.

Nello stato vegetativo, il malato oltre che essere autonomo nelle funzioni organiche, cioè non è supportato da nessun dispositivo medico, apre gli occhi, riprende il ritmo sonno-veglia, riacquista una mimica espressiva, evidenzia reattività agli stimoli esterni, a volte ride o piange. È definito “persistente”, quando perdura da oltre due anni e le possibilità di guarigione diminuiscono.

 Lo stato vegetativo persistente è sempre definitivo?

Il “risveglio” non può essere escluso aprioristicamente; la scienza, sull’ argomento, è notevolmente approssimativa. Abbiamo assistito, a livello nazionale e internazionale, ad alcuni risvegli dopo vari anni. Un esempio, tra i molti, è Massimiliano Tresoldi di Carugate (Mi) (mio caro amico su facebook). “Max, nel 1991, fu vittima di un terribile incidente stradale, rimase in stato vegetativo persistente per dieci anni, dal quale ne uscì nove anni fa. Ce l’ha fatta grazie ai suoi genitori che per anni hanno lottato contro tutti e hanno sacrificato tutto per lui. Afferma la mamma: ‘Mio figlio capiva tutto quando era in stato vegetativo. Nessuno se lo sa spiegare, nemmeno i medici, ma lui ricorda perfettamente i discorsi che abbiamo fatto quando lui non era cosciente. Stava sdraiato con gli occhi aperti, non comunicava, ma capiva tutto: di questo noi abbiamo la certezza (…).Io ho scelto, consapevole dei rischi, di interrompere quell’alimentazione forzata e di tornare a imboccarlo con pazienza ed amore ogni giorno. Certo è stato un lavoro lungo, ma vederlo rifiorire e recuperare peso è stato per noi una grande ricompensa’ ” (La Gazzetta della Martesana, 9 febbraio 2009, 11) (cfr Lucrezia Povia Tresoldi et al, Adesso vado al Max. Massimiliano Tresoldi, 10 anni di «coma» e ritorno, Ancora 2012). Accanto a Max, la letteratura dei risvegli, è ricca di vissuti commoventi. Terry Wallis, statunitense, in stato vegetativo dal 1984 al 2003. Jan Grzebski, polacco, dal 1988 al 2007. Rom Houben, belga, dal 1988 al 2009, Salvatore Crisafulli, italiano, dal 2003 al 2006, Giorgio Grena, italiano, dal 2010 al 2015. Questi ed altri casi sono sufficienti per esigere dai medici e dall’opinione pubblica un approccio più cauto, soprattutto nell’affermare l’inutilità della cura e dell’assistenza per questi malati.  

Il grado di percezione.

Le storie dei risvegliati posseggono dei tratti comuni. Tutti hanno narrato il loro stato di “non vita” solo apparente. Udivano i discorsi ed avvertivano gli stimoli esterni; di conseguenza, la disperazione, era procurata dall’impossibilità e dall’incapacità di comunicare. Le testimonianze sono confermate da vari studi. Tra i molti evidenziamo quello condotto al Centro di Ricerca dell’Istituto di Psichiatria e Neurologia dell’Università di Tubinga, e pubblicato dalla rivista Spiegel online. Il coordinatore, dottor B. Kotchoubey, ha affermato che ogni anno in Germania 100mila persone soffrono per lesioni celebrali traumatiche gravi. Ventimila rimangono in coma tre settimane o più. Alcuni muoiono, altri si riprendono, ma circa quattromila restano intrappolate in uno “stadio intermedio”, vivono senza mai “ritornare”, pur immerse nell’ambiente esterno.

Questa riflessione sull’ attitudine di percezione ci mostra il nocciolo del problema: l’ammalato in stato vegetativo persistente è una persona? Alcuni medici anche tra i più noti, e purtroppo opinion leaders, reputano che questi malati muoiono il giorno di inizio dello stato vegetativo persistente, oppure giudicano la loro esistenza affine a quella dei vegetali. Ma come ricorda G. Rocchi, questa posizione “è scientificamente improponibile; una persona è viva o morta: tertium non datur” (Il caso Englaro. Le domande che bruciano, Edizioni Studio Domenicano 2009, 49), non essendoci in natura una terza eventualità di intermedialità tra vita e morte. E’ opportuno evidenziare, scrive Rocchi, che la constatazione di morte è legata oltre che alla sospensione del battito cardiaco all’interruzione dell’attività cerebrale determinata da tre condizioni: lo stato di incoscienza, l’assenza di riflessi del tronco e di respirazione spontanea e il silenzio elettrico celebrale protratto per un convenzionale periodo di tempo.
Studi recenti, hanno dimostrato, in alcuni pazienti, l’attivazione di aree celebrali a seguito di stimoli esterni. Questo mostra che la loro vita non è totalmente priva di coscienza. Negli ultimi dieci anni, inoltre, sono stati pubblicati articoli in riviste internazionali, riguardanti uno stato di “minima coscienza” (da qui la dicitura: “Coma Recovery Scale”) captata con diversificate metodologie scientifiche.

La conclusione, l’affido ai coniugi Anita e Giorgio Gorla di Fino Mornasco (Co). Per 37 anni assistettero con immenso amore la figlia Paola in stato vegetativo persistente dall’età di quattro mesi; eravamo nel lontano 1972. Paola entro in questa situazione dopo la somministrazione del vaccino antipertosse trivalente. Per la figlia cieca, sorda e muta, i genitori costruirono una casa su misura, con l’ascensore e la piscina per la fisioterapia. Morì per polmonite virale l’11 ottobre 2009. Per 13.505 giorni, papà e mamma, la nutrirono tramite Peg, gli posizionarono il catetere tre volte al giorno per liberarle la vescica e l’aspiratore per la pulizia del naso e della bocca. Il giorno del funerale, un giornalista domandò ad Anita e a Giorgio: “Tutto inutile?”. Essi risposero con un filo di voce, straziati dal dolore: “Paola ci ha reso la vita più gioiosa e più felice. Ci manca tantissimo, anche se abbiamo la certezza che, adesso, dopo 37 anni, può fare finalmente ciò che le sarebbe tanto piaciuto: correre, giocare e ammirare tutti i doni che Dio ci ha fatto. Ora può farlo e questo, potrà apparire paradossale, ci rende gioiosi e riempie almeno in parte il grande vuoto che ha lasciato nella nostra casa e nelle nostre vite. Questo pensiero ci dà forza e ci sostiene nella prova. L’amore per Paola non è stato vano; lei è stata il nostro ossigeno e la nostra ragione di vita e vogliamo ringraziare il Signore per ogni singolo giorno che ci ha concesso di trascorrerle vicino” (Avvenire, 14 ottobre 2009, 11).

Don Gian Maria Comolli