Orgoglio e giudizio. A colloquio con la professoressa Giorgia Brambilla per fare chiarezza su gay pride e dintorni

By 30 Giugno 2018Gender

Per tutto il mese di giugno si susseguiranno numerosi eventi di tipo omosessualista in tutta Italia, dai vari “gay pride”, “pride village”, manifestazioni “contro l’omofobia”, queste ultime talvolta promosse addirittura da ambienti cattolici. Urge fare un po’ di chiarezza su un fenomeno che, se da un lato è pervasivo e onnipresente (specie nei media), dall’altro sembra innominabile. Lo facciamo con la professoressa Giorgia Brambilla, bioeticista, teologa moralista, specializzata in morale sessuale e famigliare.

L’omosessualità esiste, professoressa?

Partiamo subito dall’utilizzo dei termini: le parole hanno un significato e usare certi termini piuttosto che altri non è affatto indifferente, anzi è ciò che nel tempo modifica la concezione e la coscienza delle persone. Le affermazioni “questo uomo è omosessuale” o “questa donna è lesbica” danno l’idea che la persona in questione appartenga a una variante della specie umana, diversa dalla variante eterosessuale: mi sento attratto da una persona dello stesso sesso, quindi sono omosessuale[1]. Ma se sostituiamo questa sensazione con un’altra, prendiamo la tristezza, sarà facile coglierne l’erroneità. Mi sento triste quindi appartengo alla categoria dei “Tristi” e ritengo che la “Tristezza”, pure se continua e protratta nel tempo (depressione?), non richieda una cura psicologica o farmacologica perché per me non è un problema essere triste anzi ne sono orgoglioso e lo manifesto in piazza insieme a tutti i “Tristi”. Ritengo anche che la “Tristezza” sia meritevole di diritti e se la società non me li riconosce è “tristofoba”! Il passaggio illogico deriva dall’ipostatizzazione di una sensazione, l’attrazione verso lo stesso sesso (ASS). Per questo, a lezione come nel dibattito, preferisco parlare non di omosessuali o omosessualità, ma appunto di ASS persistente e prevalente. Dunque, non esiste l’omosessualità come entità astratta, ma il singolo individuo nato nell’unica variante possibile cioè maschio o femmina, chiamato costitutivamente all’alterità, che dal sesso cromosomico svilupperà un sesso gonadico, fenotipico e poi psichico coerente con il sesso fisico. Questo individuo, per svariati motivi, può provare una sensazione di attrazione verso lo stesso sesso accompagnata da uno scarso interesse verso il sesso opposto che però non dice nulla della sua identità, ma semmai il contrario. L’attrazione verso lo stesso sesso va considerato come un “sintomo”, un campanello d’allarme che qualcosa non va nella mia identità sessuata. Si pone troppo l’attenzione sull’omosessualità, non è di per sé questo il modo giusto di affrontare il problema. L’attenzione va posta sullo sviluppo del proprio sé come maschio o come femmina. È un po’ come quando si ha la febbre. Propriamente non si cura la febbre, in quanto essa è solo un segnale che nell’organismo c’è qualcosa che non va, ad esempio un’infezione. Si deve andare a curare ciò che ha scatenato la febbre.

Quindi l’insorgenza di questa sensazione in che modo ha a che fare con l’identità sessuata?

Concordo con gli autori[2] che attribuiscono un peso importante, senza voler etichettare o stigmatizzare quello che è indubbiamente un fenomeno molto complesso, a due fattori fondamentali che concorrono con la strutturazione e il rafforzamento nel bambino del sé come maschio o come femmina: la “triade famigliare” (padre-madre-bambino) e l’inserimento nel gruppo dei pari dello stesso sesso.

Partiamo dal primo. Il bambino vive una fase di identificazione speculare per riconoscervi la propria immagine ed affermare la propria identità. Questa identificazione comincia in famiglia con il genitore dello stesso sesso e con l’intermediazione del genitore dell’altro sesso che gli funge da rivelatore. Wyler spiega che nel processo dalla pre-omosessualità all’omosessualità i ragazzi mettono in atto un distacco difensivo dal mondo del proprio genere che scaturisce da un rapporto inconsistente o negativo con la figura genitoriale dello stesso sesso. In altre parole, il genitore deve dare dei buoni motivi al bambino per essere come lui. L’obiettivo è quello di aumentare nel bambino l’autostima di sé come maschio o come femmina e prevenire il rifiuto della sua identità sessuata. Solitamente ad un genitore assente (o non in grado di dare una presenza effettiva e di qualità), più frequentemente il padre, si accompagna la presenza ingombrante dell’altro, la madre, che boicotta il rapporto con l’altro genitore. E in questo quadro, emerge un figlio dal temperamento sensibile ed emotivo che i genitori non hanno saputo riconoscere e rinforzare.

Questo fa pensare che prima ancora dell’insorgenza del sintomo, si possano attuare delle strategie di prevenzione.

Prima del 1973, la prevenzione dell’omosessualità era una prassi universalmente riconosciuta: si tentava di evitare nell’individuo la formazione di un’identità sessuale disturbata. Noi sappiamo che l’uomo è chiamato a vivere in conformità con l’ordine naturale e la complementarietà dei sessi e l’eterosessualità sono alla base di questo ordine. È certamente vero che l’eterosessualità può sussistere anche in assenza di interventi diretti e specifici ed è anche vero nessun genitore, neanche il più attento, è in grado di controllare totalmente le ingerenze esterne che potrebbero influenzare la sessualità del figlio. Tuttavia, è certo che si può fare molto nell’ambito dell’educazione e ancor prima nella relazione con i figli.

Innanzitutto a livello famigliare. Spesso i padri, iper-prevaricati dalle mogli, abdicano al loro ruolo di guida saggia della famiglia e si sentono essi stessi inadeguati, tanto da non riuscire a stabilire un contatto con i figli e ad aiutarli attivamente. Nel contesto socioculturale attuale, dopo che il femminismo ha declassato e squalificato ruoli, complementarietà e differenza sessuale (soprattutto a scapito dell’uomo, marito e padre), è difficile far emergere la verità e la bellezza della virilità e questo va a discapito prima di tutto dei bambini. Di contro, le madri vanno “ammortizzate”. Talvolta la madre iperapprensiva boicotta involontariamente il legame padre-figlio («non uscite, oggi fa freddo!»; «non lo portare là, potrebbe farsi male!»). Nel caso dell’omosessualità maschile, ad esempio, questa eccessiva indulgenza materna favorisce l’autocommiserazione – atteggiamento molto comune sia al bambino preomosessuale sia all’omosessuale adulto – e incoraggia il suo isolamento dai coetanei maschi quando lo prendono in giro e lo escludono dai loro giochi. La madre «mette in salvo» il bambino dall’intervento paterno; lo coccola e lo consola quando il padre lo castiga o lo ignora. Problemi simili a questi nella “triade”, possono provocare un distacco difensivo e al tempo stesso un’idealizzazione di quel mondo, maschile o femminile, che è rimasto lontano e inafferrabile perché i genitori lo sono stati.

Il secondo aspetto cui faceva riferimento è l’inserimento tra i pari.

Questo dev’essere un campanello d’allarme per genitori ed educatori. Anche in presenza di una famiglia unita, infatti, potrebbe verificarsi una situazione di questo tipo, magari dovuta a menomazioni fisiche e non al rapporto genitoriale[3]. Il bambino affetto da turbe dell’identità sessuale ha un insufficiente senso di sé come maschio o come femmina. I sintomi tipici di GID (disturbi dell’identità di genere) sono: nei maschi l’interesse per i travestimenti e la tendenza ad imitare atteggiamenti femminili. Nelle femmine la volontà di vestire “da maschio”; la preferenza per i ruoli dell’altro sesso specialmente nei giochi di recitazione; la partecipazione intensa a giochi tipici del sesso opposto; la preferenza di compagni di giochi del sesso opposto o molto più piccoli. Sebbene oggi si dica l’omosessualità sia “normale»” i comportamenti di confusione sessuale costituiscono il sintomo di una questione più grave e profonda: un’identità distorta e un senso di “non appartenenza”. Il bambino pre-omosessuale si presenta spesso come il “bambino alla finestra”, che osserva da lontano i coetanei dello stesso sesso desiderando con sofferenza di giocare con loro, ma che, non riuscendoci, resta a casa.

C’è un altro elemento. Seppure l’omosessualità non sia innata, la componente del temperamento può incidere, soprattutto nei maschietti. Un bambino timido, pauroso, poco propenso alla fisicità e all’aggressività tipicamente maschile potrebbe faticare ad inserirsi nel gruppo dei pari. Ma si può fare molto: il genitore dev’essere attento a questi segnali, saperli riconoscere ed agire tempestivamente. Ad esempio, i papà devono favorire la fisicità con i figli maschi, sia in senso affettuoso sia in senso scherzoso (lotta e giochi di combattimento e di ruolo), cose peraltro che risultano loro totalmente congeniali e anche divertenti. Lo scopo del gioco è incoraggiare il “maschiaccio” ad uscire allo scoperto e aiutare il bambino a sentirsi forte per quando giocherà con i coetanei dello stesso sesso, ma anche fargli sperimentare la bellezza di una dimensione che manca a ogni “gay”: un rapporto di tipo non erotico con le persone dello stesso sesso. Le mamme devono dedicare del tempo di qualità alle loro figlie, portarle con sé a fare quelle cose che contraddistinguono le femminucce, come la cura di sé (shopping, parrucchiera, ecc.) e la cura degli altri (accudire i fratellini, andare a trovare la vicina ammalata, ecc.). In pratica, il rapporto con il genitore dello stesso sesso è un allenamento per le relazioni che il bambino avrà con i pari dello stesso sesso e da questo dipenderà la serenità di tali relazioni.

Cosa succede in adolescenza?

L’adolescente prova ammirazione proprio per quelle persone che – secondo lui – possiedono le caratteristiche che a lui mancano. In generale possiamo dire che il nucleo centrale del complesso d’inferiorità di un omosessuale può essere dedotto dalle caratteristiche che lui o lei ammirano maggiormente nelle persone dello stesso sesso. Da quella che è una vera e propria idealizzazione degli individui dello stesso sesso, conseguirà nel soggetto un’attrazione erotica verso di essi, visto che è il momento della pubertà, da cui si desiderano dei sentimenti di intimità del tutto esclusivi. L’adolescente omosessuale alimenta tali desideri e fantasie, complice anche l’autoerotismo, fino al punto da diventarne schiavo e sviluppare una vera e propria dipendenza psicologica. Alla base di tale dipendenza sessuale vi è una personalità egocentrica e narcisistica, spiegabile proprio a partire dal ripiegamento su di sé che caratterizza l’omosessuale. Il sentimento omosessuale assume, piuttosto, i connotati di un “amore immaginario”, riducendosi essenzialmente ad un modo per consolare il povero e debole io dell’omosessuale.

Alla luce di queste considerazioni, non è contraddittoria la parola “pride”, cioè “orgoglio”?

Direi proprio di sì. Il cuore della tendenza omosessuale – già peraltro riconosciuto persino da Freud – è un senso di inadeguatezza che alcuni autori riconducono a un profondo complesso di inferiorità. La spinta a “fare outing”, cioè ad uscire allo scoperto o anche queste manifestazioni di “orgoglio”, in realtà sono una reazione a questo. La persona, già portata, come abbiamo detto, ad autocommiserarsi, interpreta questo senso di inferiorità come proveniente dall’esterno e lo attribuisce all’omofobia; gli altri non mi accettano, mi escludono e quindi mi sento inadeguato. Mentre, invece, il suo stato d’animo non è provocato dagli altri, dipende dalla sua condizione, senza dubbio di sofferenza e nient’affatto “gaia” come ce la vogliono presentare. Non dimentichiamo, ad esempio, che una buona fetta di sensazioni omosessuali derivano anche da abusi subiti nell’infanzia. L’orgoglio, come l’egocentrismo, è un meccanismo compensatorio.

In concomitanza con il gay pride, a Roma sono stati affissi sui mezzi pubblici ritratti fotografici di due uomini prestanti in procinto di baciarsi. L’immagine sembra rappresentare un amore più romantico che erotico. Come commenterebbe questa scelta?

Lo stile di vita gay viene presentato come un modello positivo da seguire e spesso addirittura eretto a modello, quasi a voler fare vedere, in un modo bombardato da immagini volgari, che l’“amore” omosessuale è bello e puro, nascondendo così il vero volto della sodomia, che non ha nulla di delicato, anzi è l’emblema dell’aggressività e dell’abuso.

A livello morale siamo ben coscienti che l’atto sessuale di tipo omoerotico è uno dei cosiddetti “peccati contro natura”. La natura è il fine di qualcosa. Infatti, il male si definisce come privazione di bene, cioè di una perfezione che corrisponde alla finalità del soggetto, della funzione, dell’azione. Ovviamente, il giudizio morale si rivolge sempre all’atto e non alla sensazione, perché il soggetto può sentire, ma non “consentire”. Così come va specificato che non tutte le persone che sperimentano una sensazione omosessuale sono gay cioè politicamente attivi, non è detto che tutti siano sessualmente attivi, perché taluni vivono in grazia di Dio e secondo la virtù della castità. È l’omosessualità “agita” ad essere gravemente contro-natura nel senso che snatura, va contro il fine di quello specifico atto, deformandolo. La deformazione è duplice. Innanzitutto, c’è la privazione volontaria del significato sostanziale e primario dell’atto sessuale, ovvero la procreazione. Ci tengo a sottolineare che questo aspetto è grave anche se l’atto sessuale (orale o anale) avviene tra un uomo e una donna. L’idea propugnata anche in ambito cattolico secondo cui nel matrimonio “si può fare tutto” a livello sessuale non ci appartiene. In secondo luogo, nel caso della sodomia, c’è il rifiuto dell’ordine divino impresso nella persona umana e nella sua corporeità, ove persino a livello morfologico si richiama l’alterità: sono maschio in virtù della femmina. La determinazione sessuale è il limite che diventa spazio per l’altro, se vogliamo dirla in termini antropologici.

Il problema è che dai tempi del Paradiso terrestre, questo limite si vuole oltrepassare con superbia e disobbedienza. Tale è il carattere sovversivo – manifestato persino in simboli apparentemente innocui come la famosa bandiera arcobaleno a colori rovesciati, segno inconfondibile della ribellione verso Dio di tipo satanico e gnostico – nei confronti dell’ordine naturale compiuto dall’atto omosessuale e della deriva omosessualista, che la dottrina della Chiesa annovera la sodomia tra i quattro peccati che gridano al cospetto di Dio. Il senso della gravità di questo atto è stato coperto da una marea di falsità e non solo non si coglie più l’illiceità dell’atto compiuto privatamente ma nemmeno le conseguenze di tramutare tale atto in icona di appartenenza sbandierandolo pubblicamente, dando scandalo e manifestando esplicitamente la propria ribellione contro la Legge di Dio.

Ma se non si mostra chiaramente ed esplicitamente l’entità di questa colpa, le coscienze assuefatte non potranno reagire vigorosamente e correre a fare penitenza per tentare di riparare a questo peccato che per la sua entità attira il castigo divino. La misericordia di Dio va sempre di pari passo con la giustizia. Potremmo dire che Dio è misericordioso perché è giusto e dunque dà a ciascuno il suo. Paradossalmente escludendo il castigo finiamo col considerare Dio meno giusto e non il contrario, come invece si sente spesso. Il punto allora non è il castigo, ma il peccato, quel rifiuto di Dio e oserei dire anche di sé, della verità del proprio essere, del proprio corpo sessuato, che già porta in sé il castigo: «La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono» (Ger 2,19).

[1] Cfr. X.Lacroix, In principio la differenza. Omosessualità, matrimonio, adozione, Vita e pensiero, Milano, 2005.

[2] Mi riferisco, in particolare a Joseph Nicolosi, Gerard van den Aardweg, Irving Bieber, Elizabeth Moberly.

[3] Cfr. A. Adler, Psicologia dell’omosessualità, Newton Compton, Roma, 1994.

Elisabetta Frezza

Fonte: Riscossacristiana.it, 13 giugno 2018