Il caso Lambert. Tutelare la vita fragile è misura di civiltà di Marina Casini Bandini

Caro direttore,

la situazione sta precipitando. Dopo anni di battaglie giudiziarie approdate anche davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, da poco, all’ospedale Chu di Reims, è stata avviata la procedura per far morire Vincent Lambert. Interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione assistita accompagnata da sedazione eutanasica. I genitori chiedono provvedimenti di urgenza per fermare il “braccio della morte”. Conosciamo la storia e l’altalena giudiziaria intrecciata ai consulti medici, alle diverse opinioni dei familiari tra cui i genitori e alcuni fratelli che vogliono che Vincent viva. Lottano affinché egli venga sottratto alla morte imposta. Non si può nascondere la complessità dei problemi legati al fine vita, ma non possiamo neanche trascurare il fatto che Vincent non è malato, non è in fase terminale, non è in coma, non è in morte cerebrale. Vincent non è attaccato a macchinari. Quindi, nessuno di quei tormentosi dilemmi riguardanti i limiti di una medicina che può diventare altamente invasiva. Vincent è un uomo di 42 anni gravissimamente disabile; reso tetraplegico in seguito ad un incidente stradale che gli ha provocato anche gravi danni cerebrali. Nella sua situazione privarlo di alimentazione e idratazione significa cagionargli la morte, cioè ucciderlo.

Questa è una di quelle dolorose vicende umane sbattute in faccia all’opinione pubblica – chi non ricorda Eluana Englaro e Terry Schiavo solo per citare le due più note vicende? – sfruttate dall’ideologia che, indossando toghe e camici, pretende di mescolare le carte in tavola chiamando il “cagionare la morte” “atto civile”, “diritto”, “progresso”, “conquista”. Deve essere chiaro: nella storia di Vincent, come in quella di Eluana e di Terry, non è in gioco solo la vita o la morte di Vincent, ma il senso della vita di ogni uomo quando la vita è solcata dalla malattia o dalla disabilità; sono a tema la qualità della relazione di cura e quello sguardo pieno di tenerezza che riconosce sempre e comunque la dignità dell’altro; viene in questione l’impostazione della società e della convivenza tra gli uomini. C’è qualcosa di inquietante e soverchiante, come una seduzione velenosa delle menti e dei cuori, in questo ritenere “ostinazione irragionevole” accogliere ed amare chi ha più bisogno degli altri di solidarietà, accudimento, oblatività.

Certo, talvolta la stanchezza può sfociale nella disperazione e questa può portare a pensieri di morte. Ma nella vicenda giudiziaria di Vincent è altro ciò che emerge. Quello che viviamo con Vincent affonda, culturalmente parlando, nella permissività sociale e giuridica dell’aborto che si traduce in una perdita di chiarezza su tutto l’uomo. Se l’uomo nella sua massima fragilità e povertà non è considerato un soggetto, un fine, una persona, ma un oggetto, un mezzo, una cosa, allora tutti i pilastri della nostra convivenza civile diventano incerti e la libertà, il diritto, la giustizia, l’uguaglianza, la democrazia si trasformano in contenitori vuoti che qualsiasi contenuto può riempire. Si produce in sostanza un ottenebramento delle coscienze. Lo smarrimento di fronte al senso della vita umana, sta già mostrando i rischi concreti che derivano da un accanimento della cultura radicale.

Non è giusto che Vincent muoia. Vincent ha diritto all’assistenza che amorevolmente gli è sempre stata prestata, in particolare dai genitori. L’indignazione deve essere all’altezza di un confronto che è sempre più internazionale. Basta con queste aggressioni alla vita fragile. È qui che si misura la civiltà di una intera società.

Marina Casini Bandini

21 maggio 2019

Presidente nazionale del Movimento per la Vita italiano

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