Era vedova e malata, non lo aveva dichiarato perché l’indigenza non le lasciava altra via che quella di prestarsi alla pratica dell’utero in affitto. Ecco il vero volto di una schiavitù inaccettabile.
In Italia ne ha parlato Marina Terragni, per il resto nessuna tra le altre figure solitamente prodighe di grida tonanti per le cause femministe ha osato proferire sillaba. Guardano altrove o voltano proprio le spalle?
Una donna di 42 anni incinta di due gemelli è morta qualche settimana fa all’All India Institute of Medical Science di New Delhi. Era una madre “per altri”, come si dice orribilmente, nonostante la sua salute non fosse affatto buona: tubercolosi, idrocefalo, depressione. (Marina Terragni su Avvenire)
Visto il silenzio – temo non del tutto innocente – della nostra stampa, occorre spulciare in qualche giornale estero per farsi un’idea più precisa di cosa sia accaduto.
Schiavitù surrogata
La storia medica, e quella umana, della vittima in questione (la cui identità resta ignota), si trova riferita con dovizia di particolari in un documento redatto da un gruppo di medici che chiede alla legge indiana restrizioni più forti alla maternità surrogata.
Una vedova di 42 anni è stata mandata da un ospedale privato al AIIMS (All India Institute of Medical Science) di Nuova Delhi per un consulto riguardo alle complicazioni della sua gravidanza. Si è rivelato che era una madre surrogata alla 17a settimana e portava in grembo due gemelli, un maschio e una femmina, in cambio di benefici economici e aveva nascosto il suo passato clinico, che includeva tubercolosi, idrocefalo e depressione. Durante il secondo trimestre era stata accolta dall’ospedale privato per il trattamento di un vomito ricorrente. Aveva confessato di fare uso di un antidepressivo in quantità tali da suggerire ai medici di proporle un consulto psicologico. Giunta all’AIIMS come paziente esterno, le è stato consigliato l’aborto terapeutico. Ma prima di cominciare la procedura le sue condizioni sono peggiorate ed è stata trasferita al Pronto Soccorso, dove è deceduta (da Regulation of Surrogagy in India: Need of the Hour).
Risparmio al lettore la traduzione del referto autoptico, presente nel medesimo documento, riassumendone le conclusioni: una donna dal fisico distrutto, due feti in salute. Perché sì, la via della vita – per quanto noi presumiamo di esserne padroni – conosce traiettorie che hanno del miracoloso. E dunque partiamo dal tenere a mente che le vittime di questa storia sono tre.
Proseguiamo notando che l’appello di questi medici, nonostante vada nella direzione sensata di rendere ancora più rigida la legge indiana sulla surrogazione, tratta questo caso umano in un modo che desta qualche perplessità. Innanzitutto non si può ridurre questa tragedia a una mera prova per inasprire un provvedimento: qui ci sono vittime fatte di corpo e anima, ciò per l’ennesima volta interpella la categoria della coscienza sulla disumanità dell’utero in affitto.
Soffiando via la polvere leggera di tutte le chiacchiere astratte sull’altruismo di portare nella pancia un figlio per una coppia che non può averlo naturalmente, ci si mostra senza veli il volto dei cadaveri su cui il mondo dei benestanti vorrebbe passare per esaudire i propri desideri. Giovanni Verga disse che, dentro la fiumana del progresso, voleva ritagliarsi il posto di chi osserva le vittime sbattute a riva dalla corrente. Mai richiamo suona più attuale. Se osserviamo la storia di queste tre anime anonime, le troviamo vittime in vita, in agonia e pure in morte.
1.Lei, la madre, era vedova e malata
Questo ci fa dedurre che senz’altro la scelta di vendere il suo utero ad altri è stata motivata da una grave indigenza; possiamo desumerne una forzatura che è schiavitù, un’imposizione dettata dal non avere altra scelta. È questa la grande ferita aperta del mercato della surrogazione, lo sfruttamento della parte più debole dei paesi in via di sviluppo.
2.Loro, i gemelli, stavano crescendo bene
Quando la donna arrivò in ospedale in condizioni non buone, immediatamente si optò per l’aborto terapeutico. Perché escludere una qualsiasi terapia che tenesse in considerazione anche le loro vite? La discussione etica sulla surrogata deve tuffarsi senza remore nell’acqua gelata di questa domanda: chi tutela i diritti di questi bambini? Chi li protegge? Essendo concepiti come frutto di un contratto tra due parti, non hanno forse bisogno loro stessi di un difensore adeguato? Non sono forse tre le parti in causa (diciamolo cinicamente: l’acquirente, il fornitore e il prodotto)?
3.In morte di un fornitore difettoso
Anche da vittima la donna non ha ricevuto lo sguardo umano che la sua dignità meritava. Si vuole ridurre il suo caso all’evidenza che c’è bisogno di controllo nella scelta delle madri surrogate. È in questi termini che il problema viene posto in India: occorre un sistema che renda i controlli più efficaci e severi, che garantisca la pratica dell’utero in affitto basandosi su donne sane. Davvero ci si può coprire gli occhi fino a questo punto?
«Questo caso ci fa riflettere sulla mancanza di regolazione nella surrogazione commerciale e sull’impatto che ha sulla vita delle donne povere che usano il loro corpo per soldi» ha affermato il dottore Sudhir Gupta, a capo del dipartimento di medicina forense del AIIMS (da Times of India)
Per quanto siano le parole di un uomo premuroso, è un discorso che antepone la legge alle condizioni di vita delle donne. L’ordine con cui si pronunciano le proprie premure non è casuale. In merito a questo dramma non si può stare nel chiaroscuro: una pratica che lede la persona e sfrutta l’indigenza non va regolata meglio, va solo ed esclusivamente abolita. Quanto ai bambini, non si fa menzione. Sono morti anche loro ma sembrano esclusi dal novero di ciò che esige giustizia e rispetto ai nostri occhi.
Altruismo e commercio, la situazione in India
Lo scorso agosto molte testate mondiali riportarono la notizia che l’India aveva vietato l’utero in affitto. Essendo uno dei paesi in cui la pratica dilaga nelle forme più selvagge e indiscriminate, poteva davvero sembrare una svolta epocale di civiltà. Senz’altro si è trattato di un balzo nella direzione giusta, ma sarebbe errato pensare che davvero nello Stato di Mumbai la maternità surrogata sia stata messa al bando. Ecco come stanno le cose:
La legge autorizza la gestazione surrogata solo nel caso di scelta altruistica, tra persone della stessa famiglia, e solo per le coppie di indiani sposate da almeno 5 anni che non abbiano altri figli viventi. Il provvedimento mette quindi fuorilegge le oltre 3000 cliniche private che dal 2001 prosperavano in tutto il Paese, con coppie in cerca di figli che arrivavano da tutto il mondo, e un giro d’affari di milioni di dollari (da Ansa).
Ad approvare questa risoluzione per ora è stata solo la Camera bassa del Parlamento e, come si legge, vieta esclusivamente la maternità surrogata a scopo commerciale.
Si attende ancora che l’altro ramo del Parlamento si esprima. I punti salenti di questo testo di legge in stallo sono i seguenti:
- le coppie che possono accedere alla surrogazione devono essere indiane e spostate da almeno 5 anni. (questo tende ad arginare la speculazione da parte del mercato internazionale sulla pelle delle donne indiane)
- il bambino concepito non può essere in nessun caso abbandonato dalla coppia ricevente. (questo tende ad arginare l’altra tremenda possibilità già vista altrove: se il figlio nasce “imperfetto” lo si rifiuta)
- l’età della madre surrogata deve essere fra i 25 e 35 anni e può dare la disponibilità a questa pratica una volta sola. (altro dramma nel dramma è lo sfruttamento ripetitivo e continuato di donne, come incubatrici a vita o fino alla morte per gravi problemi conseguenti alle gravidanze imposte)
- la madre surrogata deve portare in grembo un figlio geneticamente legato alla coppia ricevente. (per arginare la pratiche indiscriminate di fecondazione)
Ovviamente, ciascuno di questi elementi è positivo in sé, ma è il pensiero generale dietro il progetto di legge che resta viziato all’origine. Concedere a monte l’opzione della maternità surrogata porterà ogni genere di legislatore a dover inserire sempre più nota bene e divieti , man mano che si renderanno evidenti le conseguenze sempre più disastrose di questa pratica. Dunque, questo caso emblematico che ha interrogato l’opinione pubblica indiana perché è morta una donna povera, malata, prostrata e i due bambini che erano nel suo grembo non dovrebbe essere uno stimolo a produrre una legge più accurata nei cavilli. Mettere mille sassolini sul sentiero lasciando aperto un portone non impedirà il cammino. Per tutelare davvero tutte le persone (compresi i concepiti e compresi anche coloro che pensano di ricorre all’utero in affitto non avendo incontrato altre risposte più umane al dolore dell’infertilità) occorre chiudere il portone: occorre vietare la maternità surrogata senza se e senza ma.
Aleteia| Ott 28, 2019