QUESITO – Diagnosi pre-natale; quando è eticamente corretta?

Ho 30 anni e sono al quinto mese di gravidanza. Sono amareggiata perché alcune persone, pur non avendo nessun problema di salute, mi consigliano di sottopormi allo screening prenatale. Per quale ragione la maggioranza delle donne gravide ritengono questo un loro diritto? Non esistono chiare indicazioni per accedervi? Alcuni esami non sono rischiosi per il feto? Rosa.

Lo screening prenatale permette la conoscenza tempestiva di eventuali anomalie del feto. La prassi medica lo consiglia alle gravide oltre i 35 anni di età, a coloro che provengono da famiglie con precedenti di alterazioni cromosomiche o genetiche, oppure a chi detiene indici di rischio elevato evidenziato dal duo-test o dal tri-test, o anomalie fetali riscontrate ecograficamente, oppure per la presenza di malattie infettive (citomegalovirus, parvovirus B19 …), o dopo aver generato figli con gravi patologie. «Al di fuori di queste indicazioni mediche», sottolinea il cardinale D. Tettamanzi, «il ricorso alla diagnosi non validamente motivato diventa almeno problematico sotto il profilo morale» (Nuova bioetica cristiana, Piemme 2000, 305).

La donna, a volte, non percepisce la valenza etico-morale del gesto. Anzi, la cultura dominante, come dimostra la testimonianza di Rosa, le fa credere che rifiutando lo screning non compie il suo dovere di madre, perciò è soggetta al rimprovero della società. L’opinione della Chiesa, riassunta nel Catechismo della Chiesa Cattolica, è contraria a questa visione: «La diagnosi prenatale è moralmente lecita, se rispetta la vita e l’integrità dell’embrione e del feto umano ed è orientata alla sua salvaguardia o alla sua guarigione (…). Ma essa è gravemente in contrasto con la legge morale quando contempla l’eventualità, in dipendenza dai risultati, di provocare un aborto: una diagnosi (…) non deve equivalere a una sentenza di morte » (2274).

La costante diffusione della pratica che racchiude evidenti significati eugenetici, infatti, il più delle volte, tende alla soppressione del feto e non alla cura, è dovuta a numerosi motivi: la medicalizzazione della gravidanza, il timore dei ginecologi di ripercussioni medico-legali, il business; l’ideologia del benessere fisico ad ogni costo e le campagne finanziate da alcune regioni.

Lo screening va programmato con il ginecologo che dovrà fornirà esaurienti informazioni essendo le tecniche diagnostiche, esclusi l’esame radiografico e l’ecografia, rischiose per il feto. Esaminiamo le più comuni.

Amniocentesi, puntura ecoguidata per il prelievo di sangue dal cordone ombelicale; rischio: 0,5%-1,9%.

Fetoscopia, prelievo di 15-20 ml. di liquido amniotico con la presenza di cellule fetali di sfaldamento; rischio: 0,5%-1,9%.

Placeocentesi, immissione del fetoscopio nell’utero per osservare la conformazione somatica, o per il prelievo di sangue del feto o di tessuti fetali; rischio: 2%-8%.

Villocentesi, prelievo di sangue fetale con puntura della placenta dal piatto coriale; rischio: 7%-10%. L’esame, potrebbe ripetersi varie volte, essendo il sangue fetale inquinato da quello materno. Il rischio che supera il 5%, ammoniva il cardinale Tettamanzi, «è inaccettabile, non solo da un punto di vista etico, ma anche da un punto di vista deontologico» (Bio-etica. Nuova sfida per l’uomo, Piemme 1987, 69). E’ urgente, quindi, regolamentare l’accesso agli screening prenatali, come pure costituire centri di consulenza scientificamente attendibili ed intellettualmente onesti, per acconsentire alle donne di manifestare le loro preoccupazioni e liberarsi da paure immotivate.

Oltre i rischi per il feto gli screening prenatali pongono l’interrogativo etico delle conseguenze. Alcune donne, appresa l’anomalia anche lieve, praticano l’interruzione della gravidanza, invece di intervenire con buon successo a livello farmacologico con medicinali assunti dalla madre, oppure agendo direttamente sul feto. A volte, l’esito dello screening, scatena nella futura mamma meccanismi che travolgono anche le migliori intenzioni, dovendo scegliere se accogliere il nascituro con probabili anomalie o ricorrere all’aborto. Ad esempio, negli Stati Uniti, a seguito dei risultati degli screening, è negata la vita al 43% dei feti con «palato fesso» e al 64% di quelli con «piede torto», nonostante entrambe le situazioni siano curabili (cfr D.I. Bromage, Journal of Medical Ethics,  2006, 2). Per sottrarsi queste eventualità, i risultati dovranno essere comunicati nel corso di un colloquio, sottolineando che essendo ipotesi, a volte, non si attueranno, oppure risulteranno meno drammatiche di quelle prospettate. Emblematico, fu l’aborto praticato nel maggio 2007 all’ospedale Careggi di Firenze, ad una donna alla 22° settimana di gravidanza. Pochi giorni prima,  fu comunicato alla futura mamma che il figlio, probabilmente, era affetto da atresia dell’ esofago. La donna interruppe la gravidanza; inseguito si accertò l’inesistenza della malformazione. Per questo, B. Haring, consiglia: «Il modo giusto di dare l’informazione sarebbe quello di far capire alla coppia che per loro non si tratta di una decisione neutra, ma di una delle più gravi conseguenze che coinvolge i più alti valori umani» (Medicina e manipolazione, Paoline 1976, 277). Questa situazione l’avevano ben compreso i nostri nonni e i nostri genitori, che pregavano Dio affinché il figlio nascesse sano, mentre oggi, le rassicurazioni, si esigono dal medico, anche se la garanzia totale non potrà offrirla nessuno.

La maternità che presagisce un nascituro con malformazioni non può essere abbandonata alla solitudine, dato che la nuova creatura trasformerà radicalmente il futuro della coppia. Il dramma della nascita di un figlio diversamente abile ha alle spalle una lunga storia. Pur suscitando preoccupazioni, angosce e anche vergogna, pochi nel passato sceglievano di sopprimerlo. Migliaia di famiglie, viceversa, hanno agito coraggiosamente per superare i problemi; associandosi, combattendo ed ottenendo positivi risultati che mitigano i disagi e l’emarginazione. La legge quadro sull’handicap, la scuola aperta a tutti, la normativa contro le barriere architettoniche, la presenza dei diversamente abili nei settori societari, sono ottimi risultati.

don Gian Maria Comolli