Da Stephen King a Carrère, la letteratura che parla di Dio

By 1 Marzo 2018Cultura

La rivista “Concilium”, dopo la monografia del 1976, torna a occuparsi del rapporto fra la narrativa e la fede. Il risveglio dei contemporanei da Schmitt a Carrère, da King a McCarthy.

Coma«Bisogna leggere la letteratura, mettersi in sintonia, cambiare registro. Bisogna arrivare a chiedersi quale è il contributo che unicamente la letteratura può esprimere, cercare ciò che nessuna teologia concettuale saprebbe formulare e che invece la letteratura esprime, a modo suo, con potenza»: così si poteva leggere in un editoriale di Concilium nel lontano 1976, in un numero completamente dedicato al confronto fra teologia e letteratura. Autori ne erano il teologo cattolico, nonché critico letterario, francese Jean-Pierre Jossua e il teologo protestante tedesco Johann Baptist Metz. Ora la rivista edita da Queriniana torna ad affrontare la questione spaziando su tutti i mondi letterari, dall’America del Nord a quella del Sud, dall’Africa all’Asia. Come giustamente rilevava Milan Kundera nell’Arte del romanzo , questa forma particolare di espressione sorta in Europa con la modernità ha saputo interpretare e scandagliare probabilmente meglio della filosofia il mistero dell’uomo. Mistero che resta affascinante anche se spesso insondabile, e che viene continuamente indagato anche dopo il verdetto del filosofo Adorno secondo il quale era impossibile fare poesia dopo Auschwitz.
Come hanno scritto due acuti indagatori del rapporto fra sacro e letteratura quali Ferdinando Castelli e Luigi Pozzoli, poeti e scrittori del Novecento hanno il merito di aver liberato Cristo dal museo dei grandi personaggi del passato, anche quando hanno assunto nei suoi confronti un atteggiamento di opposizione. «Al posto di quel Dio impassibile e un po’ sordo, inesorabilmente perduto con l’avanzare impetuoso del mondo moderno, ha iniziato a far capolino nella letteratura novecentesca in modo sempre più tangibile un Dio disceso sulla terra, umiliato accanto agli umiliati, capace di rispondere al grido di dolore che si alza da un’umanità sempre più sfigurata e abbandonata»: così ha commentato Enzo Bianchi la parabola degli autori del secolo scorso, rilevando come «dai romanzi di Bernanos alle poesie di Ungaretti, è l’immagine di un Dio che si dà pena per l’uomo, che soffre, lotta, geme accanto alle lacerazioni di ogni vivente, a emergere progressivamente come immagine autentica (e profondamente evangelica) del divino a cui l’angosciata disperazione dell’umanità si rivolge».
Lo sottolinea anche Jean-Baptiste Sèbe nel suo saggio su Concilium, incentrato sul rapporto fra Cristo e gli scrittori moderni e contemporanei. Sèbe cita Saramago e Bobin per ricordare che, al di là delle molteplici e contraddittorie rappresentazioni, Gesù Cristo resta una pietra d’inciampo per lo scrittore: «Colui che non ha mai scritto nulla – a parte qualche segno tracciato sulla sabbia – continua a essere un oggetto di ispirazione inesauribile». Da parte sua la studiosa argentina Cecilia Avenatti de Palumbi rimarca come la teologia postconciliare ha potuto trovare nella letteratura un linguaggio rivitalizzatore. Giustamente vengono citati i nomi di Charles Moeller e di Adolphe Gesché (ma anche von Balthasar, Guardini, De Lubac) in questo sforzo che per un certo periodo è sembrato monodirezionale: i teologi che guardavano alla letteratura e non viceversa. Spentasi la grande stagione della letteratura cattolica francese del ’900, che ha avuto i suoi massimi rappresentanti in Mauriac, Bernanos e Julien Green, una stagione quasi ineguagliabile, avvicinata nel nostro Paese da Pomilio, Santucci, Chiusano e Parazzoli, non per questo però il processo di reciproca influenza si è interrotto. E forse non è un caso che proprio Oltralpe oggi si stia verificando un risveglio in questo senso: si pensi allo scrittore Eric-Emmanuel Schmitt o a Emmanuel Carrère con Il Regno.
Pensiamo perfino a un autore come Stephen King, che ha uno dei suoi punti di forza nelle manipolazioni di temi religiosi o comunque attinenti alla sfera del sacro, primo fra tutti la morte. Per non parlare di Philip Dick, che qualcuno ha definito il Kafka del XX secolo. O anche al Cormac McCarthy de La strada , un viaggio di un padre e di un figlio alla ricerca di una vita possibile sul filo della fine del mondo. Proprio a McCarthy rivolge l’attenzione ancora Sèbe: il bambino rappresenta il verbo, la parola, ciò che rende possibile l’umano in un mondo spietato. Se resta in vita il bambino, se riesce a conservare la parola, «allora vuol dire che Dio continua a parlare». Aggiunge Sèbe: «A distanza da qualsiasi confessione religiosa, The Road unisce i bagliori di una lingua salvata nella quale l’essenziale è detto e non può morire». Ma Concilium – unica rivista teologica italiana dopo la drammatica chiusura di Communio – per la penna della studiosa scozzese Heather Walton rilancia anche l’idea della «teologia attraverso il life writing ». Con la scrittura autobiografica, che comprende memorie, diari di viaggio, saggi personali e che ha il suo modello nei Vangeli (vedi ancora Carrère) e nelle Confessioni di Agostino, interi mondi si spalancano.
È l’esplosione della parola che si manifesta nei mistici e nelle mistiche, come ci ha rammentato Michel de Certeau, e per avvicinarci ai nostri tempi in figure come Simone Weil e Dorothy Day. Una scrittura “selvaggia” che apre spazi infiniti e che può di nuovo rianimare il pensiero teologico del XXI secolo, dando vita a quella che Parazzoli anni fa definì «teologia narrativa». Una scrittura teologica che finisce per approdare, secondo il poeta portoghese Josè Tolentino Mendonça – che quest’anno è stato chiamato da papa Francesco a predicare gli esercizi spirituali in Vaticano – a «una lettura infinita»: la possibilità per il lettore di interpretare, arricchendoli, i testi narrativi.

Roberto Righetto
Avvenire.it, 20 febbraio 2018