Non tutto ciò che è legale è giusto: i figli non sono cose

Quello della maternità surrogata è uno dei temi etici e biogiuridici più controversi degli ultimi anni, in grado di interrogare chiunque circa la sacralità della vita e l’opportunità della produzione “su richiesta” di figli, soprattutto quando riguarda coppie omosessuali.

La maternità surrogata consiste in una tecnica di riproduzione alla quale ricorrono le coppie nelle quali le donne non possono portare a termine una gestazione – ad esempio per motivi di salute – o le coppie di omosessuali maschi. La procedura, in sintesi, prevede che un embrione venga impiantato nell’utero di una donna – la c.d. madre surrogata – la quale si impegna a consegnare il figlio alla coppia subito dopo il parto.
Uno “scambio” disciplinato da un contratto, che in Italia è espressamente vietato dall’art. 12 della legge n. 40 del 2004, il quale dispone che “chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro”.
In Italia la pratica della maternità surrogata è quindi esplicitamente vietata, ma altri Stati hanno leggi assai più permissive. Paesi come Canada, Ucraina, Stati Uniti, ad esempio, permettono di accedere alla maternità surrogata con pochi limiti (e questo spiega perché alcune coppie – omosessuali o eterosessuali – particolarmente facoltose si rechino in queste nazioni per trovare la madre surrogata e concludere il contratto secondo le leggi vigenti). Se in Italia la disciplina è chiara sul punto, rimane però aperta la strada ad una regolarizzazione de facto dell’utero in affitto, nell’ipotesi del riconoscimento del bambino come figlio della coppia.

La regolarizzazione de facto
Per coloro che fanno ricorso a queste tecniche riproduttive all’estero, il rischio più concreto è che la paternità e la maternità del bambino non siano riconosciute dalla legge una volta fatto ritorno in Italia.
Ma nella realtà dei fatti, basta un piccolo trucco per essere perfettamente in regola con la legge.
La maternità surrogata apre una spaccatura fra il brocardo “Mater semper certa est” e la realtà dei fatti, in quanto la formazione del certificato di nascita del bambino nato da maternità surrogata tiene conto solamente dei genitori-committenti, non certo della madre naturale.
Così, se una coppia si reca negli Stati Uniti per usufruire della maternità surrogata, l’atto di nascita del bambino – che indicherà come padre e madre i committenti – non menzionerà la madre naturale, e poiché il certificato di nascita formato negli USA nel rispetto delle leggi del luogo (secondo la Convenzione dell’Aja del 1961) è valido anche in Italia, quel certificato sarà completamente regolare e riconosciuto anche in Italia. Di conseguenza i due committenti, una volta tornati in Italia, risulteranno i genitori naturali del bambino. Ecco come, nella pratica, la legge italiana consente di aprire uno spiraglio all’utero in affitto.
Sotto questo punto di vista, l’eccezione rimane quella delle coppie omosessuali, nel cui caso solamente il nome di uno dei due può essere indicato come genitore, mentre l’altro non risulterà nel certificato di nascita del bambino.
Quid iuris se invece la procedura dell’utero in affitto viene eseguita in un Paese nel quale la materia non trova una puntuale regolamentazione? In questo caso sul certificato di nascita il bambino può risultare figlio della donna che l’ha partorito e di uno dei committenti, ma potrebbe risultare anche solamente come figlio della portatrice. E in genere questi – soprattutto nell’ipotesi che l’ovulo fecondato sia proprio quello della donatrice e madre surrogata – sono anche i casi più tragici, dove è possibile che il bambino venga conteso e sia oggetto di lunghi procedimenti giudiziari. I problemi giuridici connessi al tema della maternità surrogata non sono certo terminati: vi sono anche quelli connessi al riconoscimento o meno del figlio.
La giurisprudenza di merito italiana aveva già avuto modo di commentare il caso di una coppia che si era rivolta ad una madre surrogata in Ucraina. I giudici italiani avevano sottolineato che l’ordinamento interno italiano, come quello ucraino, valorizza il “principio di responsabilità procreativa” e di conseguenza “il coniuge che abbia dato l’assenso (…) alla nascita di un bambino tramite fecondazione eterologa (…) non può esercitare l’azione di disconoscimento, per avere assunto la responsabilità di questo figlio, e ne diviene genitore nonostante lo stato civile del neonato venga determinato in maniera estranea alla sua discendenza genetica”.

Il “diritto al figlio”, fra giusnaturalismo e diritto positivo
La disciplina della maternità surrogata è sicuramente materia di bio-diritto, concernendo valutazioni mediche e genetiche oltre che legislative. Ma è in primis una materia dal forte impatto etico, che sta facendo discutere, soprattutto in vista della costante regolarizzazione che i tribunali italiani concedono alle coppie che vi hanno fatto ricorso all’estero.
Nonostante la legge italiana vieti la surrogazione di maternità, il tema è scottante e richiede una comprensione che vada oltre il mero dato normativo per affondare nelle connessioni sempre più fragili fra diritto ed etica.
O meglio, è dello scollamento fra diritto positivo e diritto naturale che si tratta: quell’idiosincrasia fra giusnaturalismo – o ius naturale, il quale “presuppone l’esistenza di una norma di condotta intersoggettiva universalmente valida e immutabile” come può essere il diritto di un figlio ad una madre e un padre (e non viceversa) – e diritto positivo, quello formulato dall’uomo e in grado di mutare a seconda delle contingenze storiche, sociali, politiche della comunità umana.
Il tema ci interroga profondamente sulla possibilità o meno di attribuire, ma in maniera chiara ed inequivoca, dei diritti anche al nascituro. La domanda è: nel momento in cui gli aspiranti genitori desiderano un figlio, lo concepiscono come soggetto che ha dei diritti o come oggetto di diritto?
Il figlio è il prodotto di un sogno, visto come ‘un diritto vero e proprio della coppia’ negato dalla natura ‘matrigna’, o è un forte desiderio al quale ci si approccia tenendo conto dei limiti della natura umana? Non che il tema non sia ricco di contraddizioni e di dubbi, posto che non si vuole sindacare il legittimo desiderio di una coppia di stringere a sé un figlio.
Ma trattandosi di persone adulte, si è almeno in grado distinguere il desiderio da ciò che è senza dubbio dovuto e che quindi bisogna poter ottenere a tutti i costi? Possiamo veramente ritenere, al netto di ogni considerazione etica, che il figlio sia solo il prodotto ultimo di una raffinata catena di montaggio? La risposta del giusnaturalismo è che non possiamo ritenere un figlio solamente come oggetto di desiderio ma creatura umana dotata di diritti.
Diritti che – vale la pena specificare – sussistono anche solo in relazione al figlio come ‘idea’. Così, quando una coppia sogna un bambino… sogna suo figlio: riconoscendo così al nascituro il diritto di avere un padre ed una madre, che sono coloro che lo hanno desiderato, concepito, amato, fatto nascere e crescere.
Invece la maternità surrogata consiste in uno snaturamento dell’humanitas e dei basilari principi di diritto naturale. Non solo perché si fa ricorso ad un soggetto terzo che ospita nel proprio corpo un bambino per nove mesi, per poi partorirlo e consegnarlo ai committenti, ma perché rende artificiale e privo di senso quel percorso inderogabile che è la gestazione, il diritto del figlio a sentirsi amato dal primo all’ultimo momento e, in ultima istanza, il diritto al figlio ad avere come genitori… i suoi genitori naturali.
Come può il ragionamento alla base della surrogazione essere “lo possiamo fare perché la scienza o la legge ce lo consentono”? Un pensiero di questo tipo ci rimanda alla diatriba secolare fra il primato del diritto positivo e del diritto naturale: non tutto ciò che è legale è giusto.
Il diritto naturale ha tutti gli strumenti necessari (e umani!) per sbarrare la strada ad un istituto come quello dell’utero in affitto. Giacché se è vero che il corpus delle norme che regolano la vita sociale in uno Stato è soggetto a mutamenti nel corso del tempo, a limature che seguono l’evolversi della sensibilità e della vita civile, è anche vero che la legge non ha alcun motivo di porre un inesistente ‘diritto al figlio’ prima ancora del diritto del figlio ad avere una madre ed un padre – diritto, quest’ultimo, che affonda le sua radici in una secolare tradizione giuridica che possiamo riassumere nell’assunto ‘interesse del minore’.
Non ci resta che riflettere sulla portata che la regolarizzazione de facto dell’utero in affitto ha nell’ordinamento italiano, e sul rischio concreto che sotto le pressioni dei partiti più radicali in un futuro prossimo esso possa trovare una disciplina anche in Italia.
Basterebbe radicare profondamente nel nostro cuore e nella nostra mente quel richiamo di Abramo Lincoln che diceva, semplicemente e solennemente al contempo: “Nessuna legge mi dà il diritto di fare ciò che è sbagliato”.

Grazia Roversi
Le Fondamenta, 2 marzo 2018