Comolli

“Bioetica per tutti” (4) – Sacralità, dignità e qualità della vita: un trinomio inscindibile.

 “Ho 26 anni, abito a Milano, e da poco tempo sono medico. Terminato il liceo classico mi sono iscritta alla facoltà di medicina più per motivi opportunistici e speculativi che valoriali. Poi, man mano che praticavo il tirocinio, che mi portò a contatto con la sofferenza reale, mi sono ‘innamorata’ dei miei pazienti, ed ora per loro faccio il possibile e anche l’impossibile, ma poi, ad un certo punto, mi devo arrendermi. Sono cristiana ma non praticante. Quello che non approvo della Chiesa è l’ insistenza sulla ‘dignità della vita’ anche quando è totalmente priva di qualità e direi di senso. E’ questa un’esperienza che vivo quotidianamente operando in un reparto di malattie neuro-degenerative dove stò specializzandomi. Nel corso degli studi alcune esperienze mi hanno segnata profondamente suscitandomi alcuni interrogativi esistenziali per ora senza risposte. Ad esempio, al secondo anno di medicina, partecipando ad un Corso Elettivo (quelli facoltativi), mi fecero visitare un’ Istituto di riabilitazione psichiatrica e ricordo perfettamente il trauma che ho subito incontrando una trentina di uomini e donne affetti da ritardo mentale che parlavano ed agivano il più delle volte da bambini. E mi sono chiesta se la loro fosse un’accettabile ‘vita di qualità’. Silvia”.

Questa lettera che la dottoressa Silvia ha inviato al mio blog mi offre lo spunto per la riflessione su un altro argomento fondamentale del discorso bioetico: quello della sacralità e dignità di ogni uomo in rapporto alla qualità della vita. Non fornirò risposte alla dottoressa ma offrirò unicamente alcuni suggerimenti, memore dell’insegnamento di Carlo Bo, famoso critico letterario italiano, che affermò: “non c’è una letteratura delle sofferenze, ci sono solo dei gridi”. E i “gridi”, non si spiegano, ma si ascoltano.

Silvia si chiede: “Io da medico devo salvaguardare la qualità o la dignità dell’esistenza dei miei pazienti?”. Nella società odierna che tende principalmente alla “qualità” a scapito della “dignità”, dove molti agiscono pavlovianemente spesso condizionati dai massmedia, la mia risposta è che dobbiamo proteggere entrambi: “qualità”, “dignità” ed aggiungo “sacralità” poichè si intersecano, essendo l’uomo un essere unitario.

La dicituraqualità della vita” è d’uso comune; coinvolge la sfera societaria e personale, estendendosi dalla salute al desiderio di autodeterminazione. Indicativa è l’irrealistica definizione di salute proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OSM): “Stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non solo assenza di malattia e di infermità” (Protocollo di Costituzione – 1946), cui fece seguito alcuni anni dopo un’ambigua concretizzazione: “Lo stato di benessere fisico e mentale è necessario per vivere una vita piacevole, produttiva e ricca di significato” (Declaration of Alma-Ata – 1978) . E’ opportuno sottolineare, superando l’utopia, che nessuno mai realizzerà contemporaneamente i vari “benesseri” indicati dall’OMS! Inoltre, la “qualità della vita” identificata unicamente nei beni materiali, nell’efficienza e nel piacere diverge notevolmente dalla convinzione di “dignità e sacralità della vita”, poichè  coloro che non conseguono a causa della “fragilità” un livello minimale o affrontano situazioni di completa compromissione fisica o psichica, senza opportunità di recupero, smarrirebbero il significato dell’esistenza. Di conseguenza, come reputare i portatori di handicap gravi o mentali, i sofferenti di Alzheimer (in Italia oltre 600mila), i malati terminali o in stato vegetativo persistente? Decantare la qualità della vita equivale a valorizzare unicamente le porzione di esistenza riferibile alla materialità, tralasciando le dimensioni percepibili dai sensi (relazioni affettive, amore, amicizia, mutualità, solidarietà…) e l’aspetto spirituale. E’ irrinunciabile, dunque, identificare “parametri alternativi” che mostrano che ogni vita, anche se sofferente, può acquisire una rilevante e soddisfacente “qualità”. Questa, coincide con l’adattamento alle limitazioni esistenziali, accogliendo positivamente le trasformazioni che una patologia comporta. L’errore odierno consiste nel coniugare i parametri di qualità con il concetto di salute, scordando che la malattia o la disabilità sono costitutive del Dna di ogni persona. E, nonostante i progressi della scienza, non si  debellerà totalmente l’infermità e la fragilità e non sconfiggerà la morte. E’ opportuno, perciò, riappropriarsi della “cultura della malattia” per procurargli il valore di esperienza pienamente umana. L’esasperazione del concetto qualità e conseguentemente di salute sta diffondendo, subdolamente, un clima culturale di morte, oltre un messaggio ambiguo: le condizioni di terminalità o di fragilità grave ed invalidante non sono conciliabili con un’esistenza degna di essere vissuta.

Quella proposta, è la semplice teoria di un sano, o corrisponde all’esperienza di molti malati? E’ la testimonianza di san Giovanni Paolo II che ha trascorse lunghi periodi di dolore fisico e denominò i sofferenti “tesori” per la Chiesa e per l’umanità. E’ la voce di tanti malati che incontro da cappellano ospedaliero. E’ l’opinione del cardinale A. Comastri, già arcivescovo di Loreto, che ci offre una testimonianza più significativa di mille ragionamenti. “Una sera al termine della preghiera nella basilica di Loreto, piena di malati, mi avvicino ad una culletta sostenuta dalle braccia robuste di un barelliere, ma dentro non vedo un bambino bensì una donna adulta: un piccolissimo corpo (58 centimetri) con un volto splendidamente sorridente. Tendo la mano per salutare, ma l’ammalata con gentilezza afferma: ‘Padre non posso dar­le la mano, perché potrebbe frantumarmi le dita: io soffro di osteogenesi im­perfetta e le mie ossa sono fragilissime. Voglia scusarmi’. Ovviamente non c’e­ra nulla da scusare, ma rimasi affascinato dalla serenità e dalla dolcezza del­l’ ammalata e volevo sapere qualcosa in più della sua vita. Mi prevenne e mi disse: ‘Padre, sotto il cuscino della mia culletta c’è un piccolo diario è la mia storia. Se ha tempo, può leggerla’.  Presi i fogli e lessi il titolo: ‘Felice di vivere’. Io riguardai la malata e domandai: ‘Perché sei felice di vivere? Puoi anticiparmi qual­cosa di quello che hai scritto?’. Essa mi disse: ‘Padre, lei vede le mie condizioni, ma la cosa più triste è la mia storia! Potrei intitolarla così: abban­dono! Eppure sono felice, perché ho capito qual è la mia vocazione. Sì, la mia vocazione! Io, per un disegno d’amore del Signore, esisto per gridare a chi ha il dono della salute: #Non avete diritto di tenerla per voi, la dovete donare a chi non ce l’ha, altrimenti la salute marcirà nell’egoismo e non vi darà la felicità#. Io esisto per gridare a coloro che si annoiano: #Le ore in cui voi vi annoiate mancano a qualcuno che ha bisogno di affetto, di cure, di premure, di compagnia; se non regalerete quelle ore, esse marciranno e non vi daranno felicità#. Io esisto per gridare a coloro che vivono di notte e corrono da una discoteca all’altra: #Quelle notti, sappiatelo, mancano drammaticamente, mancano a tanti amma­lati, a tanti anziani, a tante persone sole che aspettano una mano che asciughi una lacrima: quelle lacrime mancano anche a voi, perché esse sono il seme della gioia vera! Se non cambierete vita, non sarete mai felici!#’. Io guardavo questa ammalata e non osavo commentare e fu lei che aggiunse: ‘Padre, non bella la mia vocazione?’ ” (dalla relazione: Il malato e il giorno del Signore – Chianciano Terme, 22 giugno 2004). L’orgoglio di affermare: “Padre non è bella la mia vocazione?”, racchiude l’esperienza di colei che ha conseguito una degna qualità di vita, convivendo con le proprie limitazioni.

Concludo con un breve brano di M. L. King che ci suggerisce che ogni vita può trovare, con il nostro supporto, rilievo nell’adattamento esistenziale accennato precedentemente: “Se non potete essere un pino sulla vetta di un monte, siate scopa nella valle, ma siate la migliore piccola scopa sulla sponda del ruscello. Siate un cespuglio, se non potete essere un albero. Se non potete essere una via maestra, siate un sentiero. Se non potete essere il sole, siate una stella. (…) Siate il meglio in qualunque situazione. Cercate ardentemente di scoprire a che cosa siete chiamati, e poi mettetevi a farlo appassionatamente” (La forza di amare, SEI, pg. 143).

 

29 settembre 2017

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