Comolli

L’otto marzo, nella maggioranza dei Paesi, si celebra la “Giornata della donna”; un occasione non solo per rivendicare diritti, alcuni dei quali senz’altro importanti, ma anche di riflessione nei confronti di obbrobiose situazioni di svilimento della donna ancora presenti in varie nazioni e  in parte anche in Italia.

Ho scelto come titolo a questa “pillola di saggezza”: “Non più schiave ma sorelle”, il tema che sarà trattato l’8 marzo in un convegno a Termoli, organizzato dal “Gruppo promozione donna” poiché tante donne, anche oggi, vivono in “situazioni di schiavitù”. Si pensi al fenomeno in aumento della “maternità su commissione”, cioè il rendere disponibile a pagamento il proprio utero per il decorso di una gravidanza per conto di terzi, oppure alla prostituzione un atto di “moderna” schiavitù.

E su questo fenomeno voglio fermare l’attenzione, poiché negli ultimi tempi è tornato d’attualità anche a seguito della scellerata proposta del sindaco 1di Roma, Ignazio Marino, di creare nel quartiere Eur di Roma una zona a “luci rosse” sul modello “Olanda”,  invece di  contrastare il fenomeno e soprattutto interrogarsi sul come aiutare queste donne ad uscire da questo inferno esistenziale. Inoltre, Marino, è anche poco informato poiché dallo studio “Daalder” commissionato dal Ministero della Giustizia olandese emergono dati negativi: 1) nessun “miglioramento significativo delle condizioni delle persone che si prostituiscono”; 2) “Il benessere delle donne che esercitano la prostituzione è peggiorato rispetto al 2001 in tutti gli aspetti considerati”; 3) “È aumentato l’uso di sedativi”; 4) Le richieste di uscita da questo settore sono state numerose eppure solo il 6% dei comuni, di fatto, offre l’assistenza necessaria.

I primi colpevoli di questo fenomeno sono “i clienti”, poiché in assenza di clienti, la prostituzione si ridurrebbe di molto. Per la Comunità Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi, “… i clienti sono di fatto primi sfruttatori della donna e in secondo luogo i finanziatori del racket”.

Secondo uno studio del “Gruppo Abele” la clientela è formata da circa 2milioni e mezzo di uomini, la metà sposati,  che sfruttano circa 30mila 1prostitute di cui il 12% sono minorenni. La maggioranza sono donne immigrate, costrette a vendere il proprio corpo da trafficanti e sfruttatori che le immettono come merce sul mercato del sesso a pagamento. Dalla cifra evidenziata è escluso il cosidetto  “turismo sessuale”.

Gli italiani posseggono, ad esempio, il vergognoso primato di essere i primi turisti sessuali in Kenya. E percentuali molto alte di clienti chiedono rapporti sessuali senza protezione con tutte le conseguenze che ne derivano. Inoltre, nel nostro Paese, secondo Mirta Da Pra Pocchiesa, responsabile del Progetto Prostituzione e Tratta delle persone del Gruppo Abele,   “c’è una costruzione sociale negativa nei confronti delle prostitute e una positiva nei confronti del cliente, anche perché chi legifera è quasi sempre maschio. La legge, in Italia, tutela e protegge il cliente (anche ignorandolo) da sempre. Negando la reciprocità si nega la comune responsabilità”.

Dunque, “Non più schiave ma sorelle”, significa avere l’onestà di guardare in faccia il fenomeno nella sua complessità e anche nella sua crudeltà cominciando dal nome: non più “prostitute” ma “prostituite”, poichè la maggioranza di queste donne, come affermato, non scelgono liberamente di “vendere” il Operazione anti prostituzione a Romaproprio corpo.

In Italia, la prostituzione tra maggiorenni, non è reato e questo è il nocciolo del problema. E’ regolata dalla Legge 20 febbraio 1958, n. 75 “Merlin” dal nome della Senatrice che la propose. Un aspetto che meriterebbe una seria riflessione è l’impunibilità dei clienti, i primi partner delle prostituite, che dovrebbero essere soggetti a pesanti sanzioni che potrebbero portare anche all’arresto come avviene in alcuni Paesi europei, per quello che in Svezia è definita una “forma di violenza che svilisce l’essere umano e mina la parità di genere”.  Lo stesso trattamento dovrebbe essere riservato ai trafficanti e agli sfruttatori, spesso impuniti, con un’aggravante in più: il reato di tratta di esseri umani, cioè  la mercificazione della persona umana e la sopraffazione della sua dignità e dei suoi diritti fondamentali.

1“Non più schiave ma sorelle” è l’impegno che ogni donna, per quanto gli è possibile, dovrebbe assumere nel consigliare ed aiutare queste persone ad “abbandonare la strada” anche indicando associazioni di accoglienza e di inserimento in comunità (Gruppo Abele, Associazione Papa Giovanni XXIII, Lule, Progetto Roxana, le varie Caritas diocesane…). Ma un atto di cortesia, un saluto, un sorriso lo possiamo fare tutti.

“Non più schiave ma sorelle” richiede anche un percorso culturale che produca un cambiamento di mentalità nella società attuale, fortemente erotizzata. La componente sessuale è certamente rilevante per l’uomo e per la donna, ma dobbiamo educarci ed educare a controllarla affinché rimanga una forza positiva e non riduca l’uomo in schiavitù poiché il desiderio sessuale è per l’uomo e non l’uomo per il desiderio sessuale! Come pure serve recuperare “il senso del pudore” che investe pienamente l’aspetto sessuale, e di conseguenza, la visione dell’ amore autentico, poichè la presenza o l’assenza del pudore ne cambiano il significato.

La sessualità è il linguaggio dell’amore e non semplicemente una fonte di gratificazione fine a se stessa.

E concludo rendendo omaggio alle donne che sono “testimoni di speranza” nella nostra società. La donna è aperta alle ragioni del cuore, aspetto rilevante affinchè la nostra epoca non ripiombi in un’era glaciale. La donna, inoltre, ha una robustezza caratteriale che gli facilita la capacità di sopportare i dolori e le difficoltà, di affrontare le prove con coraggio e di servire anche nelle situazioni più pesanti. La donna, infine, è maggiormente religiosa dell’uomo; per questo ringrazio le tante mamme e nonne che spesso sono le uniche a conservare accesa la lampada della fede nelle famiglie, quando i figli, cresciuti, prendono le distanze da Cristo e dalla Chiesa.

UNA TESTIMONIANZA: DALLA NIGERIA ALL’ITALIA; IL VIAGGIO RACCONTATO DA UN’ EX PROSTITUTA

OLYMPUS DIGITAL CAMERA“Il mio nome non è importante, perché il destino che mi è capitato racconta la storia di tante donne, nate come me in Nigeria.
Vengo da Benin City e ho vissuto in una famiglia numerosa: mio padre ha sposato due mogli e ho otto fratelli. Stavo bene in Nigeria ma poi è morto mio padre e le cose sono cambiate. Avevo 19 anni quando ho conosciuto una donna; faceva la parrucchiera e mi ha chiesto se volevo andare in Italia dove lei mi avrebbe aiutato a trovare un lavoro. Io ho accettato. E’ stata lei ad accompagnare me ed altre ragazze fino ad Abidjan per poi abbandonarci. Non sapevamo cosa fare per vivere, per mangiare. Così ho trovato un uomo che è diventato il mio fidanzato con la promessa che mi avrebbe aiutato a raggiungere l’Italia. E’ stato un lungo viaggio: Abidjan-Marocco in aereo; Marocco-Spagna a piedi e poi fino a Torino in macchina. Era il 1999.

Arrivata a Torino l’uomo mi ha lasciata in casa di una donna, una sua collega, ed è tornato in Austria dove viveva. Ho cominciato a lavorare in strada per guadagnare i soldi che servivano a pagare il viaggio. L’uomo ogni tanto veniva a riscuotere, mentre io continuavo a stare in quell’appartamento con la donna e altre sette ragazze.
Quando a volte arrivava la polizia non cercavo di scappare, volevo che mi prendessero e mi portassero via. Ma la polizia mi lasciava di nuovo libera, senza mai dirmi che c’erano dei posti dove avrebbero potuto aiutarmi. Quando tornavo a casa la donna che ci controllava mi picchiava perché aveva paura che mi riportassero in Nigeria e non pagassi più. Un giorno mi ha dato un documento falso che ho dovuto pagare, e proprio allora ho deciso di scappare. Sono arrivata a Pescara e per due settimane ho vissuto in albergo poi i soldi sono finiti. Sono tornata in strada e lì ho incontrato un uomo che diceva che per me era troppo rischioso lavorare in giro e mi ha trovato lavoro in un locale. Anche lì è arrivata la polizia ma questa volta, dopo avermi accompagnata in caserma, ha scoperto che il mio permesso era falso e mi hanno portato nel CPT di Lecce. Dopo 31 giorni mi hanno lasciato libera. Sono tornata a Pescara e ho cominciato a lavorare in strada di nuovo, ma solo quando avevo bisogno di soldi, quando dovevo mangiare o pagare l’affitto.

Ma il magnaccia mi ha ritrovata e mi ha minacciato dicendomi che avrebbe mandato la mafia ad ammazzare me e la mia famiglia in Nigeria. Gli chiedevo: – quanti soldi devo ancora pagare? E lui mi rispondeva: – quando mi bastano te lo dirò. Ho continuato a pagarlo ma non finiva mai, fino a quando mi ha chiesto 2000 euro per saldare il debito del viaggio dalla Nigeria all’Italia. Ero disperata, ho chiamato mia madre e le ho detto che ero stanca di pagare, che avevo bisogno di aiuto. Ero ancora giovane, avevo 28 anni e volevo stare bene. Poi ho detto al magnaccia: – fai quello che vuoi, minaccia me e la mia famiglia ma io non ce la faccio più.

Così nel 2007 sono scappata e sono arrivata a Genova, dove avevo un’amica che viveva in una comunità. Sono rimasta lì 9 mesi però nessuno mi ha aiutato. Non si può stare in comunità se non sei niente, se non hai un permesso di soggiorno. Allora sono scappata di nuovo e sono arrivata a Bologna. Stavo in stazione e nel frattempo cercavo un numero, l’indirizzo di una comunità o di un centro che mi potesse aiutare. Poi ho trovato il numero di Nico (Associazione Papa Giovanni XXIII, ndr). Sono stata in dormitorio per un paio di giorni e poi ci siamo incontrati e gli ho raccontato tutto. Lui mi ha portato in una casa famiglia. Ora ringrazio Dio per la mia vita, perché sono tranquilla, ho sempre da mangiare, adesso ho anche il permesso di soggiorno.
Oggi vivo in un appartamento con altre due nigeriane e un’italiana. Sono passati già sei mesi e ogni giorno mi sveglio, sistemo la camera, mangio e poi vado a scuola dove sto imparando l’italiano. Nel pomeriggio faccio i compiti e anche un corso di cucito.
Il venerdì andiamo in strada per parlare con le ragazze e convincerle a lasciare. A loro non piace la vita che fanno però hanno paura del voodoo. Non so se esiste in Italia ma in Nigeria ci credono in molti ed è un modo che ha il magnaccia per spaventarti dicendoti che ammazzerà te e la tua famiglia se scappi o non paghi. Ci sono tanti nigeriani qui che come me non ci credono, ma chi lavora in strada ha paura. Alle donne che incontriamo dico che c’è qualcuno che ti può far vivere meglio, che questo lavoro provoca malattie e anche la morte. Invece noi dobbiamo pensare al futuro, a cosa potrebbe esserci dopo, alla fine di questo lavoro; pensare avanti e non solo a quello che hai lasciato dietro di te, alla famiglia, ai soldi da pagare. Dico loro di venire da Papà Giovanni – io così lo chiamo – poi lasciamo il numero di telefono del centro e un rosario a ognuna, perché noi siamo cristiane e andiamo in Chiesa ogni mercoledì quando fanno la messa in inglese.

Il mio sogno adesso è di rimanere in Italia e di trovare un lavoro. Potrei lavorare come donna delle pulizie o aiuto-cuoco ma a me piacerebbe fare la baby-sitter perché amo i bambini” (http://www.bandieragialla.it/book/export/html/7230).

 

 

 

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