Comolli

Il Convegno organizzato a Roma per sabato 27 settembre dall’Ufficio Nazionale per la Pastorale della salute e da Caritas italiana, dal titolo: “La salute mentale; un’emergenza. La psichiatria in tempi di crisi”, mi offre l’occasione di affrontare l’ argomento nella “Pillola di saggezza” di questa settimana. Non è mia intenzione cimentarmi in analisi scientifiche sull’eziologia della malattia mentale ma unicamente evidenziare la problematica e presentarla sinteticamente con la costante attenzione alla persona che la soffre e, infine, fornire delle indicazioni alla comunità civile ed ecclesiale su possibili atteggiamenti da assumere nei confronti di questi “fragili”.

Complessità dell’argomento

La “malattia mentale”, in senso generale, è una frontiere di fragilità in continua e rapida espansione; di conseguenza l’argomento è ampio e complesso, coinvolgendo queste patologie soggetti affetti da molteplici sintomi che si presentano con gravità differenti.

1I dati riguardanti il disagio mentale mostrano un fenomeno di proporzioni impressionanti. Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) le persone con disagio mentale, cioè che hanno avuto a che fare, almeno una volta nella vita con gravi problemi di salute psichica, raggiungono a livello mondiale il miliardo, cioè un 1/5 della popolazione del pianeta. In Europa rappresentano il 27% degli adulti. In Italia oltre due milioni di cittadini. Perciò, una realtà di tali dimensioni, dovrebbe interpellare e scuotere le coscienze!

Inoltre, non possiamo scordare, i “disagi psichici” che talora portano alla depressione, alla somatizzazione, all’ansia e al panico oltre che all’anoressia, alla bulimia, e a disturbi del sonno… I soggetti con questi sintomi, che vivono una quotidianità quasi “normale”, nel nostro Paese rappresentano un quarto della popolazione accrescendosi di oltre quattro volte in un decennio, passando dal 8,18% per 1000 abitanti del 2000, al 35,72% nel 2010. E il dato è confermato dall’ incremento delle vendite dei “medicinali di sostegno” e dall’uso e abuso di sonniferi, ansiolitici, antidepressivi, tranquillanti e psicofarmaci…, complice anche la superficialità prescrittiva che si registra in un numero considerevole di casi. Il farmaco appare la “via di fuga” più comoda, rapida e risolutiva.

1Anche i giovani, gli adolescenti e i bambini non sono esclusi, anzi l’assunzione di questi farmaci è in crescente aumento, mentre decrescente è la media dell’età di coloro che li utilizzano. Una recente ricerca dell’Istituto Mario Negri di Milano, condotta su un campione di 1.616.268 ragazzi ed adolescenti con meno di 18 anni, riporta che 63.550 hanno ricevuto cure per problemi psicologici, dipendenze o depressione. Pure il ricorso alla consultazione psichiatrica o psicologica si è accresciuta del 10% negli ultimi 5 anni.

Le modalità di sofferenza di chi accusa malesseri mentali sono assai differenti per le cause che originano questi disturbi e per la gravità dei sintomi essendo quello psichiatrico un settore variegato che va dalle insufficienze mentali alle oligofrenie, dalle nevrosi alle demenze, dagli stati di dissociazione alle schizofrenie. E le proiezioni future indicano un aumento proporzionale di questi disagi maggiore rispetto alle patologie cardiovascolari e tumorali.

Il fenomeno interessa prevalentemente i Paesi ricchi, e i fattori scatenanti sono genetici, psicobiologici, ambientali e sociali. Inoltre, i ritmi di vita sempre più frenetici e le maggiori pressioni socio-economiche peggiorano ulteriormente il problema.

Dunque, molti soffrono, con prassi diverse, un “disagio psichico”!

A parere di E. Sgreccia queste sono le cause primarie: “l’insicurezza derivante dalla perdita di senso della vita, dalla minaccia incombente su ciascuno da parte di un mondo che quotidianamente sovrasta e sfugge al controllo degli individui; si chiama in causa il crollo delle ideologie, compresa quella del progresso, nonché la perdita del 1senso della trascendenza. Ma si considera anche lo stress della vita della città e dei trasporti, la labilità del sistema affettivo della famiglia. Evidentemente non c’è una causa sola ed è per questo che ci si appella ancora alla filosofia della complessità e alla minaccia del caos dentro l’ordine apparente” (Manuale di bioetica –vol. II, Vita & Pensiero, Milano 1991, pp. 39-40). E. Toffler, scrittore statunitense, che da anni studia i mezzi di comunicazione e il loro impatto sulla compagine sociale e sul mondo della cultura, evidenzia tre cause: “la disgregazione del tessuto comunitario relazionale nella famiglia e nella società, il venir meno di una vita strutturata e l’incapacità di dare senso all’esistenza” (La terza ondata. Il tramonto dell’era industriale e la nascita di una nuova civiltà, Sperling & Kupfer, Milano 1987, pg. 468).

Un altro fattore di criticità è la difficoltosa distinzione della “malattia mentale” dalla “devianza sociale”, cioè quei comportamenti che oltrepassando ogni regola del vivere civile producono atti assurdi di follia. Un’ ultima annotazione, collegata con la precedente, riguarda “la follia” che misteriosamente potrebbe celarsi in persone che vivono apparentemente nella normalità e che all’improvviso esplodono con gesti di una violenza inimmaginabile: genitori che massacrano i figli o viceversa, partner che uccidono e poi si tolgono la vita…

 Chi è il malato psichico

Come affermato una parte della popolazione è vittima del disagio mentale. Ma certamente la maggioranza delle persone si è trovata, almeno una volta nella vita, a contatto con questa sofferenza entrando nel circuito della psichiatria che possiamo definirla: “quel ramo della medicina che ha per oggetto lo studio clinico e la terapia delle infermità mentali e dei comportamenti comunque patologici” (Lessico Universale Italiano, voce: Psichiatria, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. XVIII, Mondadori, Milano 1984, pg. 42).

Quante persone ho incontrato nei miei ventisette anni di sacerdozio che fanno uso quotidiano di Tavor, En, Valium, Lexotan… oppure, quasi con vergogna, mi hanno confidano che frequentano lo psicologo o lo psichiatra, quasi fosse un disonore. E della maggioranza di queste situazioni di sofferenza “la comunità”, partendo da quella mondiale fino a giungere a quelle locali (civili, lavorative, parentali…), sono in 1parte responsabili. Si conducono da anni delle benemerite campagne contro il fumo e le polveri sottili essendo responsabili di malattie e anche di morti, ma nessuno osa affermare che l’antagonismo, la concorrenzialità esasperata, la cultura “non del merito ma del privilegio”, la produttività anonima che cancella la creatività, la mancata valorizzazione della preparazione professionale e delle doti personali uccidono la stima, la fiducia e la speranza. Di tutto questo si tace; che ipocrisia! Comunque, alla base di ogni disturbo mentale che necessita o meno di farmaci, si cela l’invito a verificare e riorganizzare la propria vita verso uno stato di maggiore benessere, prendendo in mano la propria esistenza anche nei confronti delle situazioni che causano sofferenza.

Poi troviamo chi vive un’esistenza fortemente condizionata dai disturbi psichiatrici; le persone che definiamo “strani” per i loro atteggiamenti e comportamenti.

1“L’identikit” di questi sofferenti fu egregiamente presentato da Simone Cristicchi con la canzone “Ti regalerò una rosa” che vinse il Festival di Sanremo nel 2007. “Mi chiamo Antonio e sono matto. Sono nato nel ‘54 e vivo qui da quando ero bambino. Credevo di parlare col demonio. Così mi hanno chiuso quarant’anni dentro a un manicomio (…). Io sono come un pianoforte con un tasto rotto; l’accordo dissonante di un’orchestra di ubriachi (…). Per la società dei sani siamo sempre stati spazzatura: puzza di piscio e segatura. Per loro questa è la malattia mentale e non esiste cura”. E queste persone sono accompagnate quasi totalmente dalla paura e da un disorientamento spesso incontrollabile che li portano ad assumere atteggiamenti assurdi.

Questo provoca in loro un angoscia immensa e una sofferenza disperata che porta qualcuno anche al pensiero del suicidio. E poi c’è una profonda solitudine perché il più delle volte, chi vive la malattia mentale, è cosciente del dramma che lo ha investito o meglio percepisce chiaramente di essere prigioniero di questa patologia che è un labirinto cieco dal quale è quasi impossibile uscire. Ovviamente, ogni malattia, ha una sua sofferenza e una sua gravità, ma ritengo che queste patologie siano, forse il termine è troppo qualunquista, le “peggiori” perché da una parte ci si sente privati della propria personalità e dall’altra si assumono atteggiamenti che non si vorrebbero addossare.

Così l’attore Rod Steiger descrive lo stato d’animo vissuto per molti anni: “Il tutto cominciò come una nebbia che s’insinuò piano piano nella mia testa e diventò così densa che io non potevo più vedere… La sofferenza precipitò e divenne così forte che io cominciai a non voler più camminare, a non volermi più lavare… E mi sedevo in giardino a fissare l’oceano dodici ore come un ebete” (E Zoli, E liberaci dal male oscuro, Longanesi, Milano 1993, pg.45).

Come riassunto e conclusione di questa sintetica descrizione, riportiamo un brano del noto psichiatra E. Borgna: “Ogni paziente psicotico, risucchiato nella metamorfosi dei suoi orizzonti di significato, non può nondimeno non essere considerato come un ‘uomo uguale a noi’: anche se non è semplicemente un uomo1 come noi ma è anche un uomo diverso da noi: non come noi; ancorchè radicamente immerso nella ricerca angosciante e disperata di un significato a cui noi non siamo estranei. Nell’esperienza psicotica si manifesta la categoria dell’assurdo, nella quale si coglie un non senso non destituito di senso; e questo modo di essere, nelle sue antinomie e nelle sue contraddizioni, tematizza non solo la Gestalt psicotica, ma anche quella normale” (Malinconia, Feltrinelli, Milano 2001, pg. 26).

 L’ammalato psichiatrico in Italia

 Aspetto legislativo

Prima del 1978 la legge di riferimento per l’ammalato psichiatrico era la n. 36 del 14 febbraio 1904: “Disposizione sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati”. Reputava questi sofferenti pericolosi per sé e per gli altri. Di conseguenza, erano ricoverati nei “manicomi” connotati come “luoghi di contenimento sociale”; un carcere dove i malati di mente o presunti tali erano privati dei diritti civili e l’aspetto 1riabilitativo era solitamente assente. Tanti, ricordano queste strutture, e ne parlano con orrore essendo più simili a lager che a luoghi di cura e le condizioni di degenza erano degradanti ed umilianti. Inoltre, fino agli anni 60’ del ventesimo secolo, era diffusa l’idea che la malattia mentale fosse una lesione organica inguaribile, e di conseguenza, la vita di questi individui era più vegetativa che umana. In questi “grandi contenitori” furono ricoverate anche persone non affette da problemi mentali ma unicamente diseredati dalla società: ubriachi senza fissa dimora, omosessuali, anziani soli…

Negli anni 60’ si costituì un movimento di riforma che esigeva che il malato psichiatrico fosse curato e non più ritenuto un criminale o un indemoniato. Anche l’evoluzione della farmacologia diede un fondamentale contributo alla modifica dell’immagine di questi fragili.

Nel 1978 fu approvata la legge 180 “Accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori” , definita anche “Legge Basaglia” e così, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, più di 100 mila persone lasciarono i manicomi. Lo psichiatra Basaglia convinto 1che i manicomi non giovassero, progettò, ispirandosi all’antipsichiatria inglese, al modello proposto dallo psichiatra ungherese T. Szasz e alla concezione dell’antropologo E. De Martino, una nuova organizzazione dell’assistenza psichiatrica che aveva appunto come centro il superamento della “logica manicomiale”. Con l’opera di Basaglia e di altri soggetti, la psichiatria, riscopre i diritti del malato mentale. Dunque, si passò dall’internamento per ridurne la pericolosità alla cura della malattia, alla riabilitazione e all’inserimento sociale e, a questi cittadini, furono restituiti i diritti civili.

La legge n. 180/78 demandò l’attuazione della stessa alle Regioni le quali legiferarono con modalità assai eterogenee, producendo risultati diversificati nel territorio anche a causa dello scollegamento tra interventi terapeutici ed assistenziali. In varie situazioni, inoltre, non si costituirono strutture intermedie tra condizione degenziale e non. L’errore commesso fu quelli di essersi illusi che bastasse abbattere le porte dei manicomi per risanare chi soffriva di patologie mentali, scordando che la cronicità non poteva essere trascurata e, nonostante le richieste del dettato legislativo, furono disposte solo in minima parte ‘strutture di sostegno’ che inserissero gradualmente questi malati nel contesto societario e supportassero le loro famiglie, spesso sconfortate da una pudica vergogna, chiuse in una solitudine senza aiuto e conforto, oppresse e travolte da problematiche cui faticavano a rispondere.

Come valutare la legge 180/78 ad oltre trentacinque anni dall’entrata in vigore?

Mentre la legislazione divenne rispettosa della dignità umana del malato psichiatrico e i progressi della neuropsichiatria portarono alla scoperta di terapie farmacologiche efficaci, l’assistenza a questi fragili e l’impegno per il loro graduale reinserimento in ambiti normali di vita e di relazione, in molti casi, fu ed è enormemente deficitaria a causa di mancate politiche concrete e di scelte ammnistrative confuse e inficiate, come in altri settori, da meschini giochi di potere. Molti articoli della legge sono ancora oggi unicamente “nobili enunciazioni” poichè i diritti per essere effettivi richiedono politiche sociali efficaci. Di conseguenza, la battaglia, non è ancora terminata!.

Aspetto culturale

Scrisse papa Benedetto XVI: “Si avverte la necessità di meglio integrare il binomio terapia appropriata e sensibilità nuova di fronte al disagio, così da permettere agli operatori del settore di andare incontro più efficacemente a quei malati ed alle famiglie, le quali da sole non sarebbero in grado di seguire adeguatamente i congiunti in difficoltà” (Messaggio per la XVI Giornata Mondiale del Malato). Caritas Italiana nel documento “Un dolore disabitato. Sofferenza mentale e comunità cristiana” nel 2003 affermò: “(serve) un attenzione, un’accoglienza, una cura, una cultura e una politica sanitaria e sociale più adeguata nei confronti delle persone malate di mente e delle loro famiglie”. Dunque, sia Benedetto XVI che Caritas Italiana, hanno sottolineato l’importanza della “crescita culturale”, perché anche oggi, certamente meno che nel passato, il malato mentale e il suo ambiente socio-affettivo, a volte, è ghettizzato e il binomio tra “malattia psichica” e “pericolosità sociale” è ancora diffuso.

1Inoltre, i vocaboli che iniziano con il suffisso “ps”, incutono timore a seguito di una cospicua disinformazione e molti dimostrano sentimenti di diffidenza nei confronti di queste persone un po’ “strane”. Spariti i manicomi non è sparita la manicomialità come modo e stile di avvicinarsi e rapportarsi con l’ altro. E per incrementare il clima di sospetto periodicamente siamo informati di episodi di violenza frutti più o meno indotti di alterazione della coscienza.

Se stilassimo una classifica sugli “ultimi” della società, dovremmo inserire senz’altro gli ammalati psichici in una posizione di rilievo. “La sofferenza mentale è, tra le povertà, quella che più deve interrogarci: sperimentarla è vivere privo d’ appoggi, di difese, di consensi, lontano e separato dagli altri, chiuso in se stesso, estraneo alla vita. È essere ‘tra gli ultimi della fila’, quelli che non contano, non si sentono, non sanno difendersi, non riescono a pesare nelle decisioni politiche e sociali” (dal documento di Caritas Italiana, pg. 16). Il cardinale D. Tettamanzi, nell’omelia della Notte di Natale del 2008 lì definì i “cosiddetti invisibili”: “una categoria destinata ad allargarsi drammaticamente se venisse a mancare lo sguardo aperto e penetrante della carità che si fa prossimità e condivisione! (…). Sono le persone che soffrono per i più differenti disagi psichici e i loro famigliari”. Eppure, le opportunità di cura e di guarigione, sono indissolubilmente legate alla relazioni personali e all’inserimento nella comunità.

 Quali comportamenti assumere verso il disagio mentale?

Terminiamo questa breve ci poniamo degli interrogativi. Per un malato con un grave deficit psichico è possibile il reinserimento sociale? Quale contributo può offrire il singolo, la comunità civile e la comunità ecclesiale?

Fra Pierluigi Marchesi ci offre un consiglio. “Un figlio di San Giovanni di Dio, padre Benedetto Menni, fondò una Congregazione Religiosa femminile che finalizza il suo cammino in special modo ed eroicamente nella assistenza ai malati di mente. E lo stesso padre Menni nella ‘restaurazione’ dell’Ordine in Spagna privilegiò l’assistenza psichiatrica fondando numerosi istituti psichiatrici. Riprendendo quel modello terapeutico, che fu detto dagli storici metodo di dolcezza, noi abbiamo reinterpretato la riabilitazione come strumento di vera umanizzazione e non soltanto tecnica esecuzione di protocolli (…). Le varie scuole di riabilitazione hanno oggi il merito di aver scoperto le infinite vie per aiutare il cosiddetto folle a poter rientrare nella 1cosiddetta normalità. Ma resta un pericolo. In quanto religiosi e credenti dobbiamo sentirci chiamati ad evitare di perdere e soffocare la soggettività del malato mentale. Presi dalle convinzioni teoriche dei modelli riabilitativi dobbiamo evitare di omologare tutti i pazienti in storie parallele o sovrapponibili seguendo maggiormente le devianze individuali più che le nostre proprie ricette tecnico-scientifiche. L’uomo, anche il folle, è fatto ad immagine di Dio e va rispettato proprio per la sua debolezza estrema che ne costituisce la vulnerabile originalità. L’uomo è sempre fatto ad immagine di Dio soprattutto quando vengono in lui smarrite le tracce fisiche e spirituali di quell’intelligenza sublime che ci ha creati proprio ad imaginem et simulitudinem suam. Oserei dire che se manca questa fede nel Dio debole e ferito, capace di soffrire nelle sue creature, viene a mancare il presupposto stesso della uguaglianza e della solidarietà tra uomini. Se mi è consentito rivolgere un appello finale agli uomini di scienza ed ai politici interessati al tema, vorrei dire che il malato mentale oggi ha soprattutto bisogno di questo riconoscimento di Dio ferito che cammina in mezzo a noi. Formiamo persone umane capaci di cogliere il suo grido e comprendere il suo gesto. Dio è in mezzo a noi nei folli, nei poveri diseredati, nella sofferenza così come nelle conquiste della scienza e nella gioia di vivere” (Il ruolo della Chiesa nel trattamento dei malati mentali, “Dolentium Hominum,” 1997 n. 1, pg. 551).

Questi “strani”, che abitano accanto a noi e che notiamo per i loro comportamenti originali lungo la strada, ci domandano di utilizzare nei loro confronti il metodo della dolcezza, assumendo atteggiamenti positivi, superando l’irrazionale paura, mostrando disponibilità all’ascolto senza pregiudizi, aiutandoli a superare la 1solitudine. Per questo dobbiamo rivedere i nostri modi di accostarli e comunicare con loro. Suggerisce E. Borgna: “Nelle pazienti, e nei pazienti, che precipitano nella malattia mentale si intravede una disperata richiesta di aiuto che Bleuler definisce così: ‘Accettami, ti prego, per l’amore di Dio, così come sono’. Immagine e metafora, della disperazione e della speranza, della inquietudine del cuore e della nostalgia di amicizia, e di amore, che sgorgano nelle anime ferite e torturate dalla malattia e dalla sofferenza, e che trovano sola consolazione nell’essere accolte e ascoltate con attenzione, e con partecipazione emozionale” (Le intermittenze del cuore, Feltrinelli, Milano 2003, pg. 177).

San Paolo, paragona la comunità ecclesiale, cioè la Chiesa, al corpo ed afferma: “quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno” (1 Cor. 12, 22-24).

J. Vanier, filosofo e fondatore della comunità “Arche”, dopo una vita trascorsa con i più fragili della società commentava: “Anche nella Chiesa le persone con handicap mentale non sono sempre onorate né viste come necessarie al corpo; troppo spesso sono considerate come insignificanti, oggetti di carità” (La force de la vulnerabilité, In ChriIstus 178 (2008), pg. 194) e concludeva motivando l’accoglienza che dobbiamo riservare loro: “A volte li si cura, ma senza vedere che è una grazia e una benedizione essere vicini a loro”.

E il documento di Caritas Italiana, citato in precedenza, vede nella Chiesa, mistero di comunione, un “antidoto contro la grave carenza relazionale di cui è vittima l’ammalato del nostro tempo, la quale favorisce lo sviluppo del disagio mentale e non ne permette la guarigione”(pg.13).

La comunità cristiana, l’insieme delle persone unite dal debito dell’amore reciproco (cfr.: Rm. 13,8) devono vedere queste persone unicamente come “un dono a cui donare dolcezza”.

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