Comolli

Nella “Pillola di Saggezza” per la Settimana Santa vogliamo ripensare alla sofferenza fisica e morale che il Signore Gesù ha subito per amore di ogni uomo morendo sulla croce.

Dalla sera del Giovedì Santo osserviamo un incalzare delle torture fisiche e psicologiche nei confronti di Gesù, descritte con precisi particolari, soprattutto da Luca che era medico e, quindi attendibile, anche dal punto di vista scientifico. Ne esamineremo i principali passaggi tenendo i nostri occhi fissi sull’eccezionale documento della “Sacra Sindone” il telo sepolcrale che “che ha avvolto la salma di un uomo crocefisso in tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù, il quale, crocefisso verso mezzogiorno, spirò verso le tre del pomeriggio.Venuta la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato solenne di Pasqua, Giuseppe d’Arimatea, un ricco e autorevole membro del Sinedrio, chiese coraggiosamente a Ponzio Pilato di poter seppellire Gesù nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia a poca distanza dal Golgota. Ottenuto il permesso, comprò un lenzuolo e, deposto il corpo di Gesù dalla croce, lo avvolse con quel lenzuolo e lo mise in quella tomba (cfr.: Mc 15,42-46). Così riferisce il Vangelo di san Marco, e con lui concordano gli altri Evangelisti. Da quel momento, Gesù rimase nel sepolcro fino all’alba del giorno dopo il sabato, e la Sindone di Torino ci offre l’immagine di com’era il suo corpo disteso nella tomba durante quel tempo, che fu breve cronologicamente (circa un giorno e mezzo), ma fu immenso, infinito nel suo valore e nel suo significato” (Benedetto XVI) .

1

 Sul monte degli Ulivi (Cfr. Lc. 22,39-46)

Due sono le scene che accaddero in quel luogo: l’invito di Gesù ai discepoli a pregare e a stargli accanto in un momento di profonda solitudine e angoscia.

Ai discepoli l’invito: “Pregate per non entrare in tentazione”, cioè per superare la prova. Anche Gesù si allontana per pregare. Una preghiera intensa per implorare dal Padre la forza di rimanere fedele alla sua volontà superando l’angoscia che gli procurano dei forti attacchi di panico ben evidenziati dalla sudorazione “tinta di sangue” che a livello scientifico assume l’appellativo di “hematidrosis”, quando a seguito di una forte tensione emotiva i capillari più piccoli possono rompersi e il sudore così si mischia con il sangue. Anche questo particolare, descritto unicamente da san Luca, mostra la sofferenza e la debolezza dell’ “uomo Gesù” che però esce vittorioso poiché subito reagisce: “Tuttavia non sia fatta la mia ma la tua volontà” (Lc. 22,42b).

 L’arresto di Gesù e il rinnegamento di Pietro (Cfr. Lc. 22,47-62)

L’arresto è guidato da “uno dei dodici”, Giuda, che giunse presso Gesù camminando davanti a una folla e subito accostò il Maestro per baciarlo. Luca non ci dice se il bacio ci fu: “e si accostò a Gesù per baciarlo” (Lc. 22,47b), mentre lo affermano gli altri sinottici (cfr. Mt. 46,49; Mc. 14,45). Ma quello che è certo, è che un gesto che esprime affetto e venerazione si è trasformato in “strumento di tradimento”, ancora più drammatico poichè seguito dell’abbandono degli amici, cioè i suoi apostoli, e dal rinnegamento di Pietro che seguirà a breve. Da notare che Matteo evidenzia che, anche in quel momento, Gesù chiamò Giuda con l’appellativo “Amico”(Mt. 26,50) e questo potrebbe essere letto come un velato rimprovero e un invito alla riflessione. Altro particolare è il rifiuto della violenza che segue l’episodio dell’orecchio tagliato a un servo del sommo sacerdote (cfr. Lc. 22,50); questo per dimostrare che l’autentica forza di Gesù è “la debolezza dell’amore”.

Pietro mentre si scaldava presso un fuoco è fatto oggetto di domande poste da tre persone diverse: “Anche tu sei uno di loro” (cfr. Lc. 22,56-60). A quel punto, non avendo scampo, non solo negò di non conoscere Gesù ma, addirittura affermò di non comprendere di chi stessero parlando: “O uomo, non so quello che tu dici” (Lc. 22,60a). Ma, “ma mentre ancora parlava, un gallo canto” (Lc. 22,60b) e Pietro si ricordò che il rinnegamento fu previsto da Gesù poche ore prima. E “uscito pianse amaramente” (Lc. 22,62).

Gli oltraggi di fronte al sinedrio e il colloquio con Erode (Cfr. Lc. 23,63-71; 23,8-12)

Il “processo giudaico”, in due fasi (una seduta notturna e una seduta mattutina), che Cristo subì nel Sinedrio, di fronte ai settanta membri di questo organismo, mise il Maestro di fronte alle menzogne più assurde, alla viltà dei potenti e alla rozzezza dei soldati poichè fu considerato, come afferma B. Maggioni: “un re da burla”. Pensiamo allo schiaffo di un servo di Caifa, ai soldati che lo flagellarono con le trentanove “flagellazioni ordinarie”, che lo spogliarono delle vesti due volte, che posero sul suo capo una corona di spine… Si avverò in queste scene la profezia di Isaia: “Ho presentato il mio dorso alle percosse e le mie guance a chi mi strappava la barba; non ho sottratto il mio volto agli schiaffi e agli insulti” (Is. 50,6). Ma questo carico di sofferenze non fermò il Cristo dall’affermare “quello che egli è”, anche se quelle parole lo condannarono definitivamente: “Allora tutti esclamarono: ‘Tu dunque sei il Figlio di Dio?’. Ed egli disse loro: ‘Lo dite voi stessi: io lo sono’ ” (Lc. 22.70a). E la pena scattò automaticamente: “Che bisogno abbiamo ancora di testimoni?” (Lc. 22,70b).

 Gesù di fronte a Pilato (Cfr. Lc. 23,1-7; 23,13-25)

Due furono gli incontri di Gesù con il governatore romano Pilato; il mattino presto del venerdì, dopo l’interrogatorio notturno nel Sinedrio e nella tarda mattinata dello stesso giorno.

Il mattino presto Gesù fu condotto, attraversando Gerusalemme, da Pilato e lì si svolse un drammatico colloquio riguardante la sua identità e il concetto di libertà. Per quanto riguarda la sua identità affermò: “Tu lo dici; io sono re” (Gv. 18, 37a). Ma egli è un re non potente, non possiede né un territorio né un esercito, e neppure il popolo che aveva soccorso con la Sua parola e con le Sue opere, lo difese. Morirà sulla croce tra lo scherno dei presenti; solo un ladro riconoscerà la sua regalità: “Gesù ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Lc. 23,42). Chiarisce, inoltre. il paradosso del suo regno: “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv. 18,38); cioè non è fondato su un potere politico, giuridico, economico o militare ma sull’amore di Dio nei confronti dell’uomo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna (Gv. 3,16). Per questo il trono di Cristo fu la croce, il luogo della massima manifestazione dell’onnipotenza di Dio e dell’amore. Chiarificò, inoltre, il significato della “verità” quando affermò: “Per questo io sono nato e per questo io sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv. 18, 37b). Aggiungendo: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv. 18,37b). Il tema delle verità Gesù l’aveva già trattato altre volte con un significato preciso: la “verità religiosa”, cioè quella riguardante Dio, la sua natura, il piano di salvezza e la risposta richiesta all’uomo.

Nel secondo incontro un nuovo interrogatorio e la scelta tra Gesù e Barabba, quando “questo re” fu rifiutato dal suo popolo e infine la flagellazione. Pilato, il procuratore romano, cui spettava la condanna capitale nel primo incontro tentò di scaricarsi la responsabilità, addossandola a Erode: “Non trovo nessuna colpa in quest’uomo” (Lc. 23,4). Nel secondo incontro, pur riconoscendolo nuovamente innocente, “non ho trovato nulla in lui che meriti la morte” (Lc. 23,22), per timore della folla tumultuosa che chiedeva la sua crocefissione, “lo fece frustare a sangue e lo consegnò ai soldati” (Mc. 15,15).

Per comprendere maggiormente la sofferenza del Cristo dobbiamo ricordare che la flagellazione comportava 39 colpi al condannato sulle spalle e sulle gambe con una frusta formata da strisce di cuoio alle cui punte erano legate delle palline di piombo della dimensione di nocciole. Prima le strisce di cuoio laceravano la pelle, poi, mentre continuava la fustigazione, penetravano nei tessuti più profondi procurando vaste contusioni.

 Sulla via del Calvario (Cfr. Lc. 23,26-32)

Gesù, dunque, condannato alla crocifissione, iniziò a percorrere, ormai indebolito, arrancante e sfinito, la via del Calvario non molto lunga, portando sulle spalle il piano orizzontale della croce che pesava dai 30 ai 50 chili mentre il piano verticale generalmente era già fissato a terra nel luogo del supplizio. E inciampò e cadde ben tre volte. Sanguinante e sudante faticava a rialzarsi; per questo il centurione ordinò a un passante che ritornava dal lavoro, Simone di Cirene, di portare la croce.

 La crocifissione (Cfr. Lc. 23,33-34)

Sul Calvario, come atto di estrema umiliazione e disprezzo, lo spogliarono delle sue vesti e lo inchiodarono sulla croce, e anche qui, il dolore fisico fu immenso. Prima l’inchiodatura delle mani al palo orizzontale, poi lo issarono sul piano verticale dove si trovava uno spuntone sul quale il condannato appoggiava i piedi e quindi seguiva l’inchiodatura dei piedi che furono fissati con un chiodo unico nel collo degli stessi. La croce innalzata gli provocò terribili sofferenze dovute all’asfissia e a dolorosissimi crampi. E il dolore aumentava con il passare del tempo poichè il peso del corpo lo fece lentamente scivolare e il chiodo toccò, tra l’altro, il nervo dei piedi. E anche la respirazione fu sempre più faticosa. E così per tre lunghe ore!

In alto, ben visibile, fu posto un cartello con l’iscrizione del motivo della condanna: “Il Re dei giudei”. L’esecuzione avveniva fuori dalla città ed era un ammonimento per tutti. Gli fu offerto vino mescolato con mirra (cfr. Mt. 15,23) ma Egli non lo bevve per morire in piena lucidità. Accanto a Lui, che nella sua vita fu accusato di essere “amico dei pubblicani e dei peccatori” (Mt. 11,19), “crocifissero due malfattori, uno a destra e uno a sinistra” (Lc. 23,33).

 Le sette parole di Gesù in croce

Anche sulla croce, Gesù fu nuovamente sfidato ma egli non accettò la sfida; però non stette in silenzio. Non salvando se stesso, Gesù  trasformò la croce nel luogo più denso della rivelazione di come l’uomo – nella sconfitta e nell’inutilità apparenti dell’amore e della fedeltà – debba totalmente abbandonarsi a Dio. Mostrò, inoltre, che il Figlio di Dio non  aggirò lo scandalo che accompagna la vita dell’uomo e il corso della storia, ma vi si addentrato più di ogni altro, facendo propria l’impotenza dell’amore che sembra mettere in discussione la verità.

 1.“Padre, perdona loro, poiché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).

Gli sembrò poco pregare, volle anche scusare! Prima di morire Gesù pronunciò ancora una preghiera per chi non si rendeva conto di quello che stava compiendo; lo stavano uccidendo. Questi uomini erano più bisognosi di perdono degli altri. E’ evidente la gravità del loro gesto, ma il Cristo offre una zattera di salvezza anche a loro. Il perdono Gesù non lo concede solo a quelli che lo desiderano, ma vuole offrirlo a tutti; il suo perdono va oltre le nostre previsioni e le nostre capacità valutative. Dunque, quel perdono, non è diretto unicamente ai diretti responsabili della sua morte, ma a tutta l’umanità, poiché, come egli stesso aveva affermato nell’Ultima Cena, il suo sangue è “il sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Mt. 26,28).

 2.”In verità, ti dico, oggi tu sarai con me in paradiso” (Lc 23,43).

E’ la frase pronunciata al malfattore crocefisso con Lui che riconobbe l’innocenza di Gesù, confessò le proprie colpe e si affidò a questo Re. Usando un verbo affermativo: “Ricordati di me” e non un condizionale mostrò che la sua fiducia nel Cristo era piena e incrollabile. Gesù, con questo atteggiamento, si portò con sé il “buon ladrone”: un uomo che  recuperò il senso profondo del suo soffrire. Il dolore non gli tolse la capacità di coomprendere chi era colui gli stava accanto e di rimproverare il comportamento dell’altro. Dunque, il ladrone, entrò con il Re nel regno della gloria!

 3.“Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua madre” (Gv. 19,26-27).

Sul Golgota, spiccavano tre esili figure, Gesù agonizzante, la Madre e Giovanni. Gesù, ricordava sant’Ambrogio, fa un atto di riverenza e di onore nei confronti della Madre: “San Giovanni ha scritto quello che gli altri hanno taciuto: (poco dopo di) concedere il regno dei cieli al buon ladro, Gesù, inchiodato alla Croce, considerato il vincitore della morte, chiamò sua madre e dedicò a Lei la riverenza del suo amore filiale. E, se perdonare il ladro è un atto di pietà, molto di più è quello di onorare la Madre con tanto affetto”. E contemporaneamente compì un nuovo atto di amore nei confronti degli uomini. “Gesù, vista sua madre, e accanto a lei il discepolo che amava, disse alla madre: ‘Donna ecco il tuo figlio’. E al discepolo: ‘Ecco la tua madre’ ” (Gv. 19,26-27). Da quel momento, la madre di Gesù, fu la madre del discepolo e di conseguenza chi crederà in Lui. E’ madre anche nostra, oltre che della Chiesa, nella misura in cui noi instauriamo con Gesù una relazione vitale.

 4.”Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46).

Il soffrire fisico di Gesù fu lancinante, non di meno quello morale e spirituale. Forse ripensava alla sua missione come a un fallimento: condannato, i suoi discepoli si disperdono e Lui si sente abbandonato anche dal Padre. Gesù gridò allora una citazione del Salmo 22 che si apre con un lancinante grido di angoscia e termina con una rinnovata fiducia . Quindi, Cristo, trasformò in preghiera il suo sentirsi nel più totale abbandono; non fu un grido di disperazione, ma un grido che esprimeva l’affidarsi a Dio nella prova estrema della morte. Così ha commentato questo grido san Giovanni Paolo II: “Questa ‘parola della Croce’ riempie di una realtà definitiva l’immagine dell’antica profezia. Molti luoghi, molti discorsi durante l’insegnamento pubblico di Cristo testimoniano come egli accetti sin dall’inizio questa sofferenza, che è la volontà del Padre per la salvezza del mondo. Tuttavia, un punto definitivo diventa qui la preghiera nel Getsemani. Le parole: ‘Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!’, e in seguito: ‘Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà’, hanno una multiforme eloquenza. Esse provano la verità di quell’amore, che il Figlio unigenito dà al Padre nella sua obbedienza. Al tempo stesso, attestano la verità della sua sofferenza. Le parole della preghiera di Cristo al Getsemani provano la verità dell’amore mediante la verità della sofferenza. Le parole di Cristo confermano con tutta semplicità questa umana verità della sofferenza, fino in fondo: la sofferenza è un subire il male, davanti al quale l’uomo rabbrividisce. Egli dice: ‘passi da me’, proprio così, come dice Cristo nel Getsemani” (Dives in misericordia, n. 18) .

 5.“Ho sete!” (Gv. 19,28).

Vedendo un vaso pieno d’aceto i soldati hanno imbevuto una spugna, “e impostandola su un bastone, raggiunsero la sua bocca” (Gv. 19, 28-29). Si adempiva il versetto 22 del Salmo 68: “Hanno messo nel mio cibo veleno, e quando avevo sete mi hanno dato aceto”. Gesù sperimentò la sete fisica che affiora sulle labbra riarse dei morenti, ma questa affermazione contiene anche un significato spirituale. E’ la sete d’amore per l’uomo che accompagnò tutta la sua esistenza.

 6.”È compiuto” (Gv. 19,30).

Gesù, era consapevole di aver realizzato totalmente la missione affidatagli dal Padre, di aver seguito le Scrittura, dove quella morte in croce era iscritta e preannunciata. “Tutte le angosce dell’umanità di ogni tempo, schiava del peccato e della morte, tutte le implorazioni e le intercessioni della storia della salvezza confluiscono in questo grido del Verbo incarnato. Ed ecco che il Padre le accoglie e, al di là di ogni speranza, le esaudisce risuscitando il Figlio suo. Così si compie e si consuma l’evento della preghiera nell’Economia della creazione e della salvezza…” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2606).

 7.”Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46).

Gesù, “a gran voce”, perché tutti lo udissero, professò nuovamente utilizzando una frase del salmo 31, il totale affidamento al Padre e la sua incrollabile confidenza in Lui. E poi riposò, attendendo che terminasse il  lungo venerdì di passione e giungesse “la domenica senza tramonto”, quando l’umanità intera entrerà nel suo riposo.

Gesù, con la sua morte, visse totalmente la sua umanità, la verità del suo ‘essere uomo’, e così manifestò la sua divinità.

E il valore universale della sua morte fu confermata dal centurione romano aprendosi alla fede: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc. 15,39).

Possiamo affermare che Gesù durante tutta la Passione fu colpito fuori, eppure dentro era sereno.

Riflettendo sulle atroci sofferenze subite da Cristo ogni uomo, oltre che ringraziarlo, dovrebbe rinnovare il proprio impegno per conquistare la salvezza personale percorrendo la via evangelica della croce.

Il nostro Maestro, il suo sforzo lo ha già compiuto, ora per raggiungere il risultato finale serve il nostro.

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